Arte della controriforma

Tutto il XVI secolo è stato segnato dai contrasti religiosi sorti a seguito della Riforma protestante avviata nel 1517 da Martin Lutero. L'Europa fu spaccata a metà, al centro-nord era protestante e a sud cattolica. Le conseguenze furono notevoli anche sul piano culturale e sociale. In gioco non vi era solo un contrasto ideologico, ma uno scontro di potere che determinò un clima di guerra (molto simile alla «guerra fredda» avutasi dopo la Seconda Guerra Mondiale) combattuta con le armi dell’inquisizione, dello spionaggio e della caccia alle streghe. E questa guerra divenne sempre più cruenta con la conclusione, nel 1563, del Concilio di Trento, convocato nel 1545 per tentare una ricomposizione tra cattolici e protestanti. Il Concilio di Trento divenne il luogo di elaborazione di quella nuova ideologia della chiesa romana che, con la sua Controriforma, dava una risposta alla Riforma proposta dai protestanti.

Il Concilio di Trento dettò norme anche per la produzione artistica commissionata dalla Chiesa. Le più note sono:

  • maggior rispetto delle fonti,

  • bando delle invenzioni gratuite e delle immagini di nudi.

Più in generale la Controriforma nel suo complesso determinò una radicale svolta dei tempi, svolta che finì per influenzare l’arte ben al di là delle indicazioni precettistiche date. In sintesi è come se improvvisamente la festa fosse finita. Quel clima di gioiosa eleganza e di sensuale bellezza, che si era respirato per tutto il periodo rinascimentale, era tramontato, per lasciare al suo posto un nuovo clima di rigore morale e di paura.

I protestanti accusavano la Chiesa romana di aver perso il senso di umiltà e povertà che aveva la chiesa delle origini, per inseguire solo potere, ricchezza e piaceri terreni. La Chiesa romana non poteva non fare una autocritica su questo argomento, ma il risultato fu essenzialmente un clima di maggior severità che ebbe riflessi negativi soprattutto verso gli altri. La risposta della Controriforma fu l’intolleranza. Si poteva essere imprigionati, torturati e condannati a morte per semplici reati di opinione. In tal modo, più che vivificare la fede dei credenti, venne instaurato un clima di terrore che serviva ad arginare la diffusione dello scisma riformistico. Casi emblematici di questa intolleranza furono le note vicende di Giordano Bruno e di Galileo Galilei. In pratica bastava avere idee diverse da quelle delle gerarchie ecclesiastiche per andare incontro ad accuse, processi, terrore e morte.

Questo clima controriformistico di fatto perdurò per tutto il XVII secolo, cominciando a diradarsi agli inizi del Settecento e per scomparire definitivamente nel corso dello stesso secolo, soprattutto con l’avvento dell’Illuminismo.




L'arte dopo il Concilio di Trento

La chiesa cattolica ha sempre avuto un rapporto fecondo e produttivo con l’arte. Da non dimenticare che la religione cristiana è stata l’unica grande religione monoteistica a non bandire, per motivi ideologici, la rappresentazione artistica di figure umane e di storie. Di fatto, se nell’Occidente europeo, dopo il tramonto dell’età classica, l’arte non scomparve, lo si deve soprattutto alla Chiesa. Chiesa che, pur avendo una posizione quasi di monopolio sulla produzione artistica, di fatto ha avuto sempre un atteggiamento tollerante verso la creatività degli artisti. Tolleranza che ebbe anche con l’avvento dell’umanesimo, quando il ritorno al mondo classico, ai suoi precetti estetici, nonché al racconto di quei dei ed eroi della mitologia combattuti proprio dal cristianesimo, portarono l’arte a lidi che non sembravano molto ortodossi da un punto di vista religioso.

Ecco perché l’improvviso atteggiamento di intolleranza che la Chiesa assunse, condizionò l’arte in maniera più profonda di quello che può apparire a prima vista. Anche perché non dobbiamo dimenticare che all’epoca gli artisti erano ancora al servizio delle classi dominanti (Chiesa e aristocrazia) e non si sognavano minimamente di svolgere un ruolo da intellettuali controcorrente.

Il Concilio di Trento si occupò delle arti nella sua ultima sessione di lavori. Il problema non era minimo, in quanto i protestanti avevano una posizione decisamente iconoclasta, per cui non si poteva ignorare il problema di un controllo sull’ortodossia delle immagini prodotte a fini religiosi. In realtà il Concilio di Trento non fornì norme precise, ma introdusse il principio che le opere destinate alle chiese dovevano essere approvate dal vescovo della diocesi. E se le opere non erano conformi alle aspettative, queste potevano essere rifiutate o si poteva richiederne la modifica. Ovviamente i vescovi ebbero atteggiamenti diversificati. San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1560 al 1584, pubblicò nel 1577 le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae, destinate agli architetti e ai pittori e scultori di soggetti sacri, che rimasero quale modello di rigore per l’arte del periodo successivo. Bisognò aspettare il 1624, allorquando il cardinale Federico Borromeo, con il suo De pictura sacra, ammise nella chiesa un atteggiamento di maggiore tolleranza.

Gli artisti si adeguarono prontamente a questo nuovo clima: non più immagini che potevano inneggiare alla gioia e alla felicità, ma immagini che suscitavano necessità di pentimento e di sacrificio. Il martirio dei santi divenne uno dei temi più ricorrenti fino a tutto il Seicento, quasi a testimoniare una nuova visione della religione basata soprattutto sul dolore e sulla mortificazione. In un certo senso, in questa atmosfera buia, anche i colori si scurirono: furono sempre più gli artisti che, sulla scia di Caravaggio, affondano le loro immagini in una cornice di oscurità avvolgente. Il nudo, soprattutto femminile, scomparve quasi del tutto e laddove rappresentato, risultò più castigato e meno lascivo. I soggetti mitologici, infine, furono notevolmente ridimensionati e riservati solo alle opere laiche per la committenza privata.

Per questo motivo in campo artistico la Chiesa non mostrò atteggiamenti fortemente intolleranti o di censura, come avvenne invece nel caso della produzione a stampa di libri o di opere scientifiche.

Un caso eccezionale di censura, passato alla storia, fu quello di Paolo Veronese, che nel 1573 completò l'enorme tela di 13 metri per il convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo a Venezia. La scena ritraeva l'ultima cena e si svolgeva, con dovizia di personaggi e dettagli, sotto uno splendido portico in stile palladiano. Nonostante sia uno dei momenti culminanti della vita di Gesù, l'opera distrae palesemente l'attenzione dell'osservatore da scene collaterali che nulla hanno a che fare con il rito della comunione. Veronese fu accusato di trattare con leggerezza, laicismo e inattendibilità storica il tema della trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù (transustanziazione), che era il dogma più attaccato dalla chiesa protestante. Fu quindi convocato dinanzi al tribunale ecclesiastico per dare spiegazioni. Si giustificò appellandosi alla libertà espressiva che deve essere concessa agli artisti. Non fu condannato ma gli fu cambiato il titolo dell'opera in Cena in casa di Levi, il ricco pubblicano, biblicamente noto per le sue gozzoviglie, che invitò Gesù a cena, in seguito alla quale si convertì, prendendo con il nome di Matteo.

Paolo Veronese - Cena a casa di Levi



La pittura a cavallo del '500 e '600

Con il Concilio di Trento lo spirito del Rinascimento si esaurì. Tuttavia la pittura manierista che ne era derivata sopravvisse fine alla fine Cinquecento e gli inizi Seicento, grazie soprattutto a tre pittori: Annibale Carracci, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio e il pittore fiammingo Pieter Paul Rubens.

Annibale Carracci era il più giovane di un terzetto di artisti bolognesi formato, oltre che da lui, dal fratello Agostino e dal cugino Ludovico. Questi tre artisti diedero vita a Bologna all’Accademia degli Incamminati che fu il baricentro di quella tendenza dell’arte seicentesca che definiamo «classicismo». Nei loro insegnamenti si cercava di coniugare il modello dei grandi maestri cinquecenteschi, quali Raffaello e Tiziano, con un rinnovato studio del vero: in pratica una pittura che coniugasse l’idealismo (fatto di armonia, proporzione, decoro, misura, ecc.) con il realismo (fatto soprattutto di ispirazione e studio della realtà).

Quando Raffaello quando doveva dipingere una Madonna usava probabilmente una modella, ma l’immagine che ne derivava non era il ritratto della donna in carne e ossa che lui aveva davanti: il quadro doveva raffigurare un’immagine femminile idealizzata (quale noi attribuiamo, per convenzione culturale ma anche per aspettativa psicologica, alla Madonna) e non una figura di una donna reale appartenente ad un tempo ed un luogo relativi. Questo procedimento rinascimentale di passare dal reale all’ideale lo possiamo chiamare di «trasfigurazione». Annibale Carracci, proseguendo nello stile rinascimentale, più che trasfigurare la realtà si limitava ad "aggiustarla" con le regole del decoro, della compostezza, dell'ordine, dell'armonia, eccetera.

L’artista che più rappresentò il realismo (o naturalismo) fu sicuramente Caravaggio. Egli fu autore di un’autentica rivoluzione pittorica, dimostrando la forza che poteva avere una rappresentazione esatta della realtà, senza alcuna trasfigurazione o aggiustamento. Il suo stile, unito anche ad una grandissima qualità pittorica innata, gli permise di produrre opere che ebbero un’influenza grandissima su tutta la pittura europea del XVII secolo.

Caravaggio, al contrario di Carracci, abolì dalla sua pittura qualsiasi «trasfigurazione»: la realtà rappresentata nei suoi quadri appariva nuda e cruda come l’immagine reale che si presentava agli occhi del pittore. I modelli e le modelle erano rappresentati con tale verismo da sembrare quasi foto reali. L’effetto, per il pubblico del tempo, fu quasi sconvolgente, anche perché non erano abituati a veder rappresentata la realtà senza il filtro della «trasfigurazione».

Altra differenza notevole tra lo stile di Carracci e quella di Caravaggio è nel diverso rapporto tra disegno e pittura. Mentre per Carracci l’arte nasce soprattutto dal disegno, che rimane la trama logica, razionale e visibile, dell’immagine costruita, Caravaggio costruisce i suoi quadri solo con gli strumenti della pittura: cioè luce e colore. Nella sua evoluzione stilistica Caravaggio accentuò sempre più il contrasto tra luce e ombra, al punto che l’immagine non poteva più essere costruita con gli strumenti razionali del disegno. In pratica nei suoi quadri ciò che appare non è la struttura dei corpi, ma solo quel tanto che opportuni effetti di luce ci permettono di vedere. E questi effetti di luce, quasi lampi che appaiono nell’oscurità per mostrarci un’immagine affogata nel buio, divennero una delle cifre stilistiche più forti di Caravaggio.

Il fiammingo Pieter Paul Rubens, infine, fu il pittore che unendo in una originale sintesi spunti realisti tipici dell’arte nordica con gli ultimi virtuosismi dell’arte manierista creò la pittura barocca, pittura molto esuberante giocata sempre su composizioni molto complesse.

Questi tre artisti posero ognuno le basi per i tre maggiori percorsi lungo i quali si snodò l’arte europea del Seicento:

  • il classicismo,

  • il naturalismo

  • il barocco

Annibale Carracci, Assunzione della Vergine (1600-1601), Basilica di Santa Maria del Popolo, Roma


Caravaggio. La vocazione di san Matteo. Dett. 1597-1603. Olio su tela. Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli.

Pieter Paul Rubens, L’arrivo di Maria De Medici a Marsiglia, 1622-1625, olio su tela, cm 394 X 295. Parigi, musée du Louvre


La nascita dei generi pittorici

Nel corso del Cinquecento, nonostante il filtro della controriforma, la produzione pittorica conobbe un aumento vertiginoso rispetto ai secoli precedenti. Ciò fu dovuto a molteplici cause, quali l’aumento della ricchezza (quindi maggior committenza soprattutto privata) ma anche la maggior bravura dei pittori in grado di soddisfare qualsiasi esigenza di rappresentazione. Inoltre, l’introduzione dei colori ad olio e della tela come supporto, ebbero la conseguenza di far aumentare la produzione di beni mobili (quadri da cavalletto) rispetto a quelli immobili (affreschi e mosaici), con la conseguenza che venne favorito il collezionismo e il mercato delle opere d’arte. In maniera più o meno diretta, queste cause produssero un ulteriore effetto: aumentò la specializzazione dei soggetti delle opere d’arte. E con ciò nacquero i cosiddetti «generi», che altro non sono che un raggruppamento delle opere per soggetti omogenei.

La consapevolezza che potessero esistere più generi pittorici fu chiara quando presero autonomia i soggetti che raffiguravano i paesaggi e le nature morte. Precedentemente il paesaggio veniva utilizzato solo come sfondo di quadri che avevano altri soggetti principali: il ritratto, il racconto di una storia, e così via. L’idea, poi, di fare quadri che rappresentassero solo composizione di oggetti inanimati non era mai stata considerata per mancanza di una reale motivazione. Quando il collezionismo cominciò a far tesoro anche di disegni preparatori e studi di quadri, anche questo genere trovò una sua possibilità di commercializzazione.

In Italia, le prime opere di capostipiti di questi due nuovi generi, vengono fatte risalire ad Annibale Carracci e a Caravaggio. La Fuga in Egitto realizzata nel 1603 dal Carracci viene considerata come il primo quadro di paesaggio, mentre la Canestra di frutti del 1596 del Caravaggio è considerata la prima natura morta dell’arte italiana.

Il Carracci è anche considerato l’iniziatore della cosiddetta pittura di genere. Con questo termine vengono normalmente indicate le opere che raffigurano momenti ed episodi di vita quotidiana presi tra la gente comune. Tipici sono le sue opere quali La macelleria, del 1583, o Il mangiafagioli, dello stesso anno, in cui non sono narrati episodi né storici né religiosi né mitologici, ma è rappresentata la vita comune, e spesso pittoresca, del popolo minuto.

Nel corso del Seicento e Settecento, la specializzazione per generi della pittura ebbe largo seguito, e molte furono le opere prodotte nei diversi ambiti. Particolare evoluzione ebbe soprattutto il genere vedutistico. Con questo termine intendiamo non solo la rappresentazione di paesaggio (che normalmente raffigura scorci di natura quali montagne, colline, laghi, cascate, vedute marine eccetera), ma un genere più ampio che comprende anche le rappresentazioni di città, in scorci a volte ampi (come dei paesaggi) a volte molto più ristretti, quali un angolo di strada magari con qualche scena di pittoresca vita quotidiana.

Questa divisione per generi della pittura produsse anche riflessioni e dibattiti su quali fossero i generi più o meno nobili o più o meno ardui da affrontare. Il teorico francese André Félibien des Avaux (1619-95) individuava quattro principali generi, che elencava secondo la seguente scala di difficoltà:

  • la natura morta, il genere più semplice perché l’artista rappresentava solo oggetti inanimati, che poteva controllare nelle composizioni e nelle luci che meglio preferiva, e quindi il compito gli risultava agevole;

  • il paesaggio, più difficile da rappresentare, perché il pittore non poteva spostare la composizione come voleva e la luce da rappresentare era quella naturale;

  • il ritratto, di difficoltà maggiore perché il pittore si doveva confrontare non con soggetti inanimati ma con persone vive, che doveva rappresentare cogliendone anche l’aspetto psicologico;

  • le pitture di storia, ovvero opere di tipo narrativo sia nel campo prettamente storico, sia in quelli religioso o mitologico o favolistico in genere, rappresentavano il grado di maggior difficoltà che un pittore poteva affrontare, innanzitutto perché nei quadri di storia vi erano tutti i generi precedenti (la natura morta, il paesaggio e il ritratto) ma in più perché il pittore doveva anche rappresentare il movimento, cioè dipingere i personaggi non in posizione statica, come nei ritratti, ma nell'atto di muoversi compiendo un’azione: in sintesi doveva cogliere il dinamismo, aggiungendo pathos alla scena rappresentata.

Annibale Carracci, Paesaggio con la fuga in Egitto, 1602 – 1604, olio su tela, 122 x 230. Roma, Galleria Doria Pamphilj


Caravaggio - Canestra di frutti - 1594/1598 - olio su tela - 49×62 cm - Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Annibale Carracci, Bottega del Macellaio o Grande Macelleria, 1585 ca., olio su tela, 190 x 271 cm. Oxford, Christ Church Gallery