AVELLINO
Il capoluogo della terra degli Hirpini
La mia storia
C'era una volta Abellinum! Proprio così: "una volta" e ora non più.
Inizia così la mia storia, con i fasti dell'antica Abellinum, i cui resti sono visitabili nel vicino comune di Atripalda. Lì vivevano gli Abellinati, popolo di Hirpini. Erano i progenitori che abitavano le terre irpine a partire dal XII secolo a.C.. Di origine indoeuropea, penetrarono nella penisola italica attraversando le Alpi, prevalentemente seguendo l'Appennino e si stabilirono nel Centro-Sud, mescolandosi e sovrapponendosi alle popolazioni preesistenti. In particolare le terre irpine li attirarono perché le loro valli, scavate nel corso del tempo dai tanti fiumi e torrenti, permettono il collegamento tra il Tirreno e l'Adriatico, tramite buoni passi e con la protezione delle montagne, e perché la loro fertilità è particolarmente generosa, avendo ricevuto nel tempo periodiche ricariche delle ceneri del Vesuvio.
Gli Hirpini erano noti per la loro bellicosità e devozione alla libera morte. Pomposi nelle armi (consistenti in alabarde, picche, strali, spuntoni e scudi fregiati in oro e argento), erano frugali nelle case. Combatterono i Romani durante le Guerre Sannitiche e dopo tanti anni di lotta, alla fine della Seconda Guerra Sannitica (290 a.C.), furono costretti a scendere a patti con gli invasori. Approfittando della vittoria di Annibale avvenuta a Canne (216 a.C.), gli Hirpini insorsero nuovamente, ma vennero ancora sopraffatti sette anni dopo. Altra, ed ultima, insurrezione, si ebbe durante la Guerra sociale, quando gli Abellinati sostennero Mario, perdente, contro Silla, vincente. Per questo, le milizie di Silla distrussero Abellinum e crearono nell'82 a.C. la colonia Veneria Abellinatium, sulla riva sinistra del fiume Sabato, che andò in premio ai veterani. Il nuovo nome dell'antica città derivava dal Santuario dedicato a Venere che vi fu realizzato.
Con la diffusione del Cristianesimo nelle terre irpine, iniziarono le persecuzioni e molti martiri della comunità cristiana di Abellinum sono ricordati dalla Chiesa: il sacerdote Sant'Ippolisto (1 maggio 303) ed altri suoi contemporanei, il Senatore Quinziano (convertito al Cristianesimo da Sant'Ippolisto) ed i suoi figli adolescenti Ireneo e Crescenzio, i Patrizi San Giustino e San Proculo, le nobili vedove Massimilla e Lucrezia (figlie del Decurione Massimiano, colpevoli di aver dato degna sepoltura a Sant'Ippolisto), il "Curator civitatis" Sant'Anastasio, i cittadini San Firmo, San Fabio, Sant'Eustachio, San Secondino, Sant'Eusebio, San Firmiano, Sant'Egnazio (o Ignazio), San Procuro (martirizzato assai crudelmente), San Eulogio, San Querulo e un altro San Fabio, San Modestino e i suoi compagni San Fiorentino e San Flaviano.
Abellinum, sopravvisse alla Caduta dell’Impero Romano d'Occidente (476), conservando le sue antiche tradizioni sotto la dominazione ostrogota prima (fino al 536) e bizantina dopo (fino al 571). Con l'invasione dei Longobardi nel 571 la città antica rimase priva di abitanti, in parte uccisi, in parte scappati nel circondario.
Da allora, ogni riferimento documentale storico ad Avellino fa riferimento al nucleo abitato della "Selectianum", divenuta poi "La Terra", nell'attuale centro storico di Avellino.
I feroci Longobardi, giunti nelle mie terre tra il 570 ed il 571, colpiti dall'aiuto ricevuto dalla popolazione cristiana durante gli attacchi bizantini, si convertirono a questa religione e cominciarono a edificare luoghi di culto, molti dei quali dedicati all'Arcangelo Michele, che somigliava molto ad uno dei loro Dei guerrieri. Nell'849 il Ducato longobardo fu suddiviso in due Principati, in seguito denominati Principato Citra Serras Montorii (Principato di Salerno) e Principato Ultra Serras Montorii (Principato di Benevento, in cui ricadeva il nuovo centro abitato di Abellinum/Avellino, che nel frattempo aveva ormai acquisito la tipica conformazione ad avvolgimento, con una serie concentrica di abitazioni attorno all'originaria Chiesa di Santa Maria, costituente il nucleo originario della città.
Nel periodo longobardo il mio centro abitato L'Avellino divenne un oppidum fortificato con mura e torri. Le mura racchiudevano la collina de "La Terra" e circoscrivevano la civitas Abellini; il resto costituiva il suburbio.
Nel XII secolo, l'assenza delle furibonde guerre dei secoli precedenti e la ristrutturazione amministrativa operata dai Normanni, favorirono l'inizio di un periodo di rinascita dei traffici e di crescita demografica, di messa a colture di terre, di riedificazione militare (castelli), civile (palazzi) ed abitativa (nuove tecniche edilizie). In tale contesto storico fu edificata, con ampio impiego di materiale romano riutilizzato, la mia Cattedrale, il cui disegno fu influenzato dalle basiliche paleocristiane laziali e campane. Stando alla Tradizione, il 10 giugno 1166, nel pagus Urbinianum (oggi Rione Valle), mentre si stava recuperando una colonna per la costruzione dell'Episcopium (Cattedrale) di Sancta Maria, alla presenza del Vescovo Guglielmo, si rinvennero i resti di San Modestino, poi traslati nella Cattedrale.
Nel 1194, l'Imperatore Enrico VI di Svevia, per reclamare i suoi diritti di successione sul Regno normanno, scese in Italia con l'Imperatrice Costanza, conquistando Napoli e dichiarando Avellino Città della Corona, concedendola in feudo, con tutta la Contea, a Gualtieri di Parigi. Seguirono le famiglie feudatarie dell'Aquila, dei Montfort, e sotto gli Angioni, dei Del Balzo, che tennero il feudo fino al 1381. Venne poi la volta dei Filangieri e infine dei Caracciolo.
Nel 1436, il Re Alfonso I d'Aragona, mosse le sue truppe da Nola verso Avellino, ma il Conte Trojano Caracciolo, fedele a Renato d'Angiò, si oppose alle truppe aragonesi, precludendone il passaggio. Tuttavia, quattro anni dopo, gli aragonesi riuscirono ad avere la meglio sulla resistenza dei miei cittadini e venni saccheggiata: il Castello, le chiese, i conventi e case vennero dati alle fiamme e centinaia di avellinesi vennero massacrati. Gli Aragonesi fecero abbattere persino le costruzioni site a Bellizzi, luogo di vacanze dei Signori di Avellino. Trojano Caracciolo, a questo punto, fu costretto ad invocare clemenza e, passando dalla parte del Re aragonese, riebbe la mia città con l'impegno di sostenere e Alfonso I contro Renato d'Angiò.
I superstiti abbandonarono i sobborghi e si concentrarono sulla Collina "La Terra", all'interno della cortina muraria difensiva. Diversi Monasteri e Chiese rimasero senza mezzi di sostentamento e furono soppressi. Il culto cristiano fu indirizzato quasi esclusivamente nella Cattedrale.
Dopo tante devastazioni e sofferenze, nei secoli XVI e XVII, con l'annessione del Regno di Napoli al Regno di Spagna, la mia popolazione poté godere di un lungo periodo di pace, che ne favorì la ripresa. Tutto iniziò con la Contessa Maria de Cardona, che ricevette in eredità la Contea di Avellino nel 1513, unitamente al Marchesato di Padula. Di una bellezza senza uguali, ricchissima, assai colta, buona d'animo, amante della musica, Maria de Cardona favorì il rinnovamento della città, la sua rinascita industriale e commerciale, il suo risveglio culturale, trasformando il Castello in una magnifica residenza gentilizia, dove dimorò a lungo, incontrando letterati e musicisti, che ospitò frequentemente. Fondò anche l'Accademia dei Dogliosi, un'unione di dotti. La Contessa fece costruire e ricostruire chiese, conventi, oratori, un ospedale. Grazie a lei i miei cittadini, che nel 1532 erano poco più di mille, nel 1561 diventarono 1600.
Nel 1581, Marino Caracciolo, un prode Cavaliere della Battaglia di Lepanto, comprò dalla Corona il feudo di Avellino col Casale di Bellizzi, a condizione che ad Avellino non dovessero risiedere ufficiali regi. Per questo motivo l'udienza provinciale venne trasferita a Montefusco e la città, che nel 1595 annoverava 2850 abitanti, perdette il rango, tenuto fin dal 1284, di capoluogo della provincia di "Principato Ultra".
Iniziò, così, il lungo periodo feudale della famiglia Caracciolo-Rossi, che durò fino all'abolizione dei diritti feudali (1806), durante il quale, subii una importante metamorfosi urbanistica. Camillo Caracciolo, verso il 1615, fece trasformare il Castello in palazzo, convertendo il terreno attiguo in giardino. Dal 1617 al 1630 il baricentro della mia città si spostò dal Castello, che fu abbandonato, alla residenza signorile di Palazzo Caracciolo. Il Castello, insieme al Palazzo, erano frequentati da artisti e letterati, e l'Accademia dei Dogliosi fu alimentata da nuova linfa. Il mio disegno urbano migliorò molto dal punto di vista estetico. Grande meriti li ebbe l'Architetto bergamasco Cosimo Fanzago, a cui si deve la facciata del Palazzo della Dogana e l'Obelisco a Carlo II d'Asburgo.
Nel 1656, nonostante l'adozione di provvedimenti cautelari, come quello di impedire l'ingresso ad Avellino dei forestieri e quello di tenere la Dogana fuori dell'abitato, la pestilenza entrò nella mia città in maniera violenta, contagiando quaranta cittadini al giorno, in prevalenza donne. Vennero adibiti diversi Lazzaretti, che si riempirono immediatamente, insieme ai Cimiteri. Ben presto cominciarono a scarseggiare medici e becchini e i morti rimasero insepolti. Mi ritrovai ben presto in condizioni miserevoli. La popolazione risiedente si ridusse a meno della metà: circa duemilacinquecento abitanti, oppressi peraltro da continue gabelle. Tale evento, oltre che ad affossarmi economicamente e demograficamente, segnò il tramonto del Castello, che rimase in stato di abbandono.
I successivi terremoti del 1688, del 1732 e del 1805 non mi aiutarono di certo a riprendere gli antichi fasti.
L'8 agosto 1806 fu abolito il feudalesimo e divenni Capoluogo della Provincia di "Principato Ultra", al posto della decaduta Montefusco, per la mia più felice posizione geografica, che meglio si prestava a servire i Comuni del Principato. Dopo il 1810, per volere di Giacomo Mazzas, primo intendente del Principato Ultra, vennero abbattute le mie porte e le mura, di cui oggi restano solo microscopici resti. Ciò consentì l'espansione dell'abitato.
Un importante ruolo nella storia dei moti liberali del 1820 la ebbi grazie ai due sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, che capitanarono le truppe ribelli che, partendo dalla mia città, si diressero su Nola e poi su Napoli, innescando le rivolte estesesi in tutto il Meridione, tanto da costringere Ferdinando I di Borbone a concedere la Costituzione. La rivolta infine fu repressa nel sangue e Morelli e Silvati vennero decapitati con la ghigliottina.
L'Unità d'Italia non fu particolarmente provvida di vantaggi per me e conobbi un nuovo periodo di decadenza, aggravato dalle distruzioni notevoli apportate dai bombardamenti americani durante la Seconda Guerra Mondiale. Tantissimi miei cittadini si videro costretti a emigrare per cercare miglior fortuna all'estero.
La decadenza si interruppe a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, anche grazie ad un politico lungimirante, di Paternopoli, Ministro dei Lavori Pubblici, l'Onorevole Fiorentino Sullo, che riuscì a ottenere il passaggio dell'Autostrada A16 Avellino-Napoli e consentendo, nell'arco di meno di trent'anni, che la mia popolazione raddoppiasse. Ci fu una notevole estensione della superficie edilizia, con la nascita e la crescita di numerosi quartieri. Tuttavia l'obsolescenza di diversi antichi edifici nell'area storica causò tantissimi morti in seguito al terremoto del 23 novembre 1980. Così, in seguito a questo evento calamitoso e luttuoso, colsi l'occasione per avviare un rinnovamento, oggi ancora non completamente compiuto, nonostante siano passati decine e decine di anni.
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RUDERI DEL CASTELLO
Si ignora ancora oggi quando e da chi il mio castello fu edificato. Il luogo in cui sorge, basso e angusto, è chiuso ad ovest dalla collina "la Terra", a nord e nord-est e a sud e sud-est da due dorsali selvose, che degradano a oriente verso la piana di Atripalda. Chiunque direbbe che è un castello fuori posto, collocato in una buca invece che in un luogo più adatto come poteva essere il rialto del duomo, ove, isolato, avrebbe avuto grande dominio morale, campo di vista in ogni senso, e molta forza difensiva, dato che qualunque nemico non avrebbe potuto trasportare con agio lassù macchine per dare la scalata o per aprire la breccia, e, quand'anche vi fosse riuscito, avrebbe corso poi rischio di venir ributtato giù per ripidi pendii. Tuttavia, se il castello fu costruito in quella bassura, e tra due dorsali su cui un'armata assediante avrebbe potuto collocare osservatori e trovare valido appoggio per opporsi ad eventuali atti controffensivi dei difensori della città, fu perché la collina "la Terra" era già gremita di case.
Quasi certamente il castello fu edificato tra il IX e il X secolo, allorquando le città e i villaggi irpini, per salvaguardarsi dai frequenti attacchi di saraceni o di bizantini o di briganti, elevarono mura o castelli. In tale epoca, infatti, era già avvenuta una certa fusione tra i longobardi e le popolazioni locali, con comune interesse a fortificarsi.
La cerchia murata del castello abbracciava l'intera collina "la Terra" e conteneva il duomo, l'episcopio (ossia l’edificio adibito a seminario), sei o sette badie e semplici chiese, piazzette o cortili, vicoli, rampe e case.
Nei secoli seguenti il castello e la città ospitarono imperatori e re, oltre che primati e baroni di diverse città. Tuttavia la residenza più rinomata, per riqualificazione edilizia e funzionale, dal 1513 al 1528, fu quella di Maria de' Cardona, donna di singolare bellezza, assai ricca, di vasta cultura, pia, e molto appassionata per la musica, annoverata tra le signore più illustri dei suoi tempi, usava dimorare a lungo ad Avellino. La Cardona accolse di frequente nel castello letterati e musicisti e tenne convegni intellettuali, concerti, ecc.; d'altra parte, essa diede pure sviluppo alla città e ne accrebbe industrie e commerci.
Dal 1581 la Città divenne proprietà dei Caracciolo. Camillo Caracciolo, verso il 1615, ridusse il castello quasi a palazzo, e convertì il terreno attiguo in giardino. Con il Principe Marino II, l'Accademia de' Dogliosi, fondata da Maria de' Cardona, ebbe nuova linfa e il castello divenne dimora di riunioni per discutere di questioni scientifiche, letterarie, morali o per ascoltare versi, oltre che di feste o veglie sontuose, allietate da rappresentazioni, da concerti, da balli o da giochi.
Nel 1630 il castello ospitò, per tre giorni, Maria d'Austria, sorella di Filippo IV re di Spagna, regina d'Ungheria e poi imperatrice. Nel 1656 divenne centro di provvidenze per fare fronte alla peste che infieriva in Avellino e nell'Italia Meridionale.
In seguito alla peste del 1656 iniziò il suo graduale declino. Molte delle pietre originali del Castello furono utilizzate nella prima metà del 1700 per la costruzione del Palazzo Caracciolo in Piazza Libertà, oggi sede della Provincia di Avellino. Devastato dai numerosi eventi sismici che si sono succeduti, è di proprietà del Comune di Avellino che ne ha iniziato - da molti anni - i lavori di recupero e restauro e non riesce a terminarli.
CASINO DEL PRINCIPE
La Casina (o Casino) del Principe di Avellino, situata lungo la via che conduceva verso le Puglie, fu realizzata intorno al 1591 dal principe Camillo Caracciolo come luogo d'accesso ad un sontuoso parco retrostante che, ricco di alberi, piante e fiori esotici, era luogo ideale per caccia e diporto. Nel 1647, durante la cosiddetta rivoluzione di Masaniello, sia il castello che il parco subirono ingenti danni a seguito dei quali persero l'antico splendore. La struttura fu così riconvertita in taverna ed albergo per i viaggiatori provenienti da Napoli e diretti a Foggia, Bari ed altre località pugliesi.
La sua morfologia è con una corte a pianta quadrata, con aperture laterali che conducono ai piani superiori. All’interno della corte, in posizione prospettica rispetto al portale principale, è collocata una fonte abbeveratoio, che s’innalza su un basamento in pietra lavica. La fonte è realizzata in forma semicircolare con nicchione a conchiglia, di cui oggi è visibile solo la struttura sottostante in tufo e le due colonne bugnate con mascheroni in marmo. Il complesso della Casina è a due piani a forma di C, e racchiude un cortile; ad esso è affiancato un edificio ex fienile posto al di là di un piccolo appezzamento di terreno come un giardinetto.
Il restauro ha lasciato inalterata la magia del passato, conservando i locali che un tempo erano adibiti a “botteghe” e che oggi sono location di appuntamenti ed eventi d’arte e di musica, proseguendo nella tradizionale scia culturale che i Caracciolo diedero a questo luogo, trasformandolo in crocevia di arte e cultura.
A copertura degli ambienti del piano terra, originariamente destinati ai cavalli (scuderie), ed in quelli del piano superiore, riservato ai signori, si ritrovano dei tronchi, testimoni del carattere essenziale della Casina, destinata originariamente alla caccia e diporto, più che a offrire ambienti sofisticati.
Al di sotto del Casino è ubicata la sala ipogeo, una piscina-teatro sotterranea che serviva ai Caracciolo sia come luogo di fuga (collegato con una rete di cunicoli di epoca longobarda) sia come sala di piacere e di ristoro dopo le sedute di caccia. La sala era dotata di un sistema idraulico all’avanguardia ricavato da una preesistente cisterna di un acquedotto romano. Il visitatore può ammrare elementi decorativi emergenti come la fontana a parete, con incavo absidale, che accoglie due figure statuarie, una maschile ed una femminile. Stucchi del soffitto rappresentano motivi di spugne e conchiglie.
TORRE DELL'OROLOGIO
La Torre dell'Orologio è il mio simbolo. E' un monumento in stile barocco alto circa 36 metri.
Il suo basamento è a bugne riquadre. Originariamente aveva due piani, con quello più elevato aperto. Successivamente, venne aggiunto un terzo livello dotato di un orologio a campane.
Data la sua altezza e la sua collocazione, la Torre dell'Orologio sovrastava gli edifici circostanti e la sua sommità è visibile da lontano.
Come tutti i monumenti secolari che sono stati eretti nelle mie terre, la Torre dell'Orologio ha vissuto le conseguenze dei vari terremoti successivi alla sua costruzione, nel XVII e XVIII secolo. Perciò, venne restaurata nel 1782 e, successivamente al sisma del 23 novembre 1980, allorquando crollò quasi interamente, fu quasi interamente ricostruita, mantenendo solo alcuni elementi originali.
OBELISCO A CARLO II D'ASBURGO
Nel 1665 diventava Re di Spagna, a soli quattro anni, Carlo II d’Asburgo. Fu così che i Caracciolo commissionarono nel 1668 l’obelisco in stile barocco, ubicato in Piazza Amendola, su cui fecero raffigurare il principe, che all’epoca aveva circa 7 anni, con abiti sontuosi e la faccia da bambino. L’Obelisco di Carlo II d’Asburgo è sovrastato dall’imponente presenza della Torre dell’Orologio. I miei cittadini lo chiamano il “Reuccio di bronzo”.
Nella base c’è un medaglione, riportante un ritratto che gli storici non hanno mai saputo attribuire con certezza, ma che presumibilmente deve rappresentare o lo scultore dell'opera Cosimo Fanzago o il committente principe Francesco Marino Caracciolo.
PALAZZO CARACCIOLO
In Piazza della Libertà non può sfuggire al visitatore la bellezza del Palazzo Caracciolo, fatto erigere tra il 1708 ed il 1713 dalla Principessa Antonia Spinola-Colonna, consorte di Marino III Caracciolo, come nuova residenza feudataria, in sostituzione del sempre più fatiscente Castello.
L'edificio ospitò il 4 e 5 gennaio del 1735, "in pompa magna", il Re Carlo III di Borbone, che si apprestava a visitare il Regno appena ottenuto.
Il trasferimento dal Castello al nuovo Palazzo ebbe, ovviamente, ripercussioni sull'assetto urbanistico di Avellino, e spostò il baricentro nell'area della odierna Piazza e del Corso Vittorio Emanuele II.
Quando divenni Capoluogo del Principato Ultra nel 1806, la mia amministrazione acquistò l'edificio per la somma di 24.000 ducati e, così, nel 1808 divenni sede per diversi uffici pubblici, quali l'Intendenza provinciale , i Tribunali civile e correzionale, la Corte delle Assise e la Tesoreria. Ecco perché il Palazzo è anche noto come "Palazzo dei Tribunali".
Nel 1839, a spese dell'Amministrazione Provinciale, il Palazzo fu sopraelevato di un terzo piano.
Oggi l'entrata è protetta da due leoni. Sulla facciata una lapide ricorda Giuseppe Garibaldi e una meridiana solare segna il tempo.
Il Palazzo appartiene al demanio provinciale dal 1987 e dal 1995 è sede dell'Amministrazione della Provincia di Avellino.
PALAZZO DE CONCILIIS
Alle spalle del Duomo di Avellino, una delle famiglie più importanti di Avellino, la famiglia de Conciliis, sin dalla fine del Seicento aveva acquistato o costruito molti palazzi. Tra questi vi è quello attualmente occupato dalla Camera di Commercio e un altro palazzo, noto come Palazzo de Conciliis, costruito da Luigi Maria de Conciliis, architetto e ricco proprietario del posto.
Il Palazzo è anche noto come Palazzo Victor Hugo, per via del fatto che tra il 1807 ed il 1808 le sue stanze ospitarono il colonnello Leopold Sigisbert Hugo, comandante militare della provincia di Avellino durante il decennio francese. Questi si fece raggiungere per pochi mesi dalla moglie e dai figli, tra i quali il piccolo Victor, divenuto poi noto nella storia della letteratura francese e mondiale. Della casa avellinese in cui trascorse alcuni momenti della sua infanzia, Victor Hugo mantenne un ricordo nostalgico: “C’etait un palais de marbre …” dirà poi riferendosi al materiale marmoreo del palazzo in cui aveva abitato.
Dopo vari passaggi l’edificio fu ereditato da don Felice de Conciliis, che aveva sposato Francesca Roca. Nel 1833 la coppia ebbe una figlia, Michela, donna bella e virtuosa, che a 22 anni sposò Francesco Antonio Rossi, brillante e ricco possidente di Lettere, comune in provincia di Napoli, per poi rimanere vedova e senza figli dopo pochi anni. Nel 1864, all’età di 31 anni, Michela sposò in seconde nozze il medico avellinese Enrico Amabile, molto più giovane di lei, ma il matrimonio fu altrettanto sfortunato e rimase nuovamente vedova e senza figli. Fu così che pensò bene di dedicarsi alla beneficenza, ancorché fosse sofferente a causa di una grave malattia. Michela de Conciliis morì il 28 ottobre 1903, all’età di 70 anni, lasciando la sua eredità all’Ospedale. Nel palazzo trovarono asilo donne sole, ragazze madri, orfani e bimbi abbandonati, diventando così la Casa della Maternità. Oggi, una lapide all’interno dell’edificio, ricorda il gesto di Michela de Conciliis, che sin dalla giovane età aveva destinato il suo Palazzo al sostegno dei poveri.
FONTANA DI BELLEROFONTE
In Corso Umberto I il visitatore che passeggia per il centro storico del mio centro abitato può imbattersi in una grandiosa fontana barocca denominata Fontana di Bellerofonte, dal nome della statuetta che in passato si trovava in una nicchia al centro della Fontana, raffigurante Bellerofonte nell'atto di uccidere la Chimera.
Il mito di Bellerofonte, di origine greca, narra dalla sua intenzione di purificarsi l'anima dopo aver ucciso involontariamente il re di Corinto, Bellero. Per reintegrare l'anima fu mandato ad uccidere la leggendaria Chimera, una bestia con la testa di leone, il corpo di capra e la coda di serpente, che sputava fiamme. Ci riuscì grazie ad uno stratagemma e all’aiuto di Pegaso, cavallo alato, versando piombo fuso nella bocca del mostro. Poi fu mandato a sconfiggere da solo l’esercito delle Amazzoni e dei Solimi. Ci riuscì, ma cominciò a sentirsi invincibile e peccò di “ubris”, ovvero di tracotanza. Si convinse, infatti, di poter raggiungere l’Olimpo grazie all’aiuto di Pegaso. Gli dei, furiosi per la sfida, mandarono un tafano per pungerlo. Per il dolore, l’eroe greco cadde dal cavallo in volo e rimase paralizzato a vita.
I miei cittadini conoscono la Fontana di Bellerofonte anche con il nome di Fontana dei Tre Cannuoli, dai quali fuoriusciva l'acqua, oggi sgorgante solo da una bocca. Originariamente la fontana era alimentata dalle acque delle sorgenti della catena montuosa del Partenio, che perveniva in loco attraverso un sistema di cunicoli idraulici, a cui si può accedere attraverso una porticina sul retro.
L'opera fu voluta da Francesco Marino Caracciolo, che la commissionò all'architetto Cosimo Fanzago, suo carissimo amico, poco dopo l’epidemia di peste ad Avellino (nel 1688 precisamente), per creare un monumento elegantissimo in una parte della città allora periferica. Francesco Marino Caracciolo, uno dei tanti figli della nobilissima famiglia napoletana, protagonista durante la rivolta di Masaniello e famoso per il suo carattere orgoglioso e indomabile, fece questo atto di generosità nei confronti dei miei cittadini, nell'ambito di un investimento più ampio, non solo volto a fornire cibo e sostegno medico agli ammalati, ma anche per migliorare le condizioni igieniche del mio centro urbano.
La fontana, realizzata sul rudere di un vecchio e anonimo abbeveratoio in pietra, è situata tra due piccole rampe di cinque gradini e presenta cinque nicchie, di cui tre circolari. Quella centrale, albergante Bellerofonte e altre due nicchie superiori, che contenevano i busti di un patrizio e di una matrona romana. Lateralmente, altre due nicchie di maggiori dimensioni, sopra piedistalli, ospitavano due statue di marmo. E' costituita da blocchi di pietra bianca in breccia irpina, con inserti in marmo bardiglio e pietra lavica.
Tutte le statue sono state trafugate nel tempo. Nel 1799 i Francesi operarono un primo "alleggerimento". Successivi sciacallaggi hanno spogliato ulteriormente la fontana delle statue. Nel Ferragosto del 1983 l'ultimo furto: quello della statuetta più importante: il Bellerofonte.
FONTANA GRIMOALDO
Nei pressi del borgo denominato di Sant'Antonio Abate, antico e una volta popoloso rione sviluppatosi leggermente al di fuori delle mura di Avellino, si trova la Fontana Tecta, o anche Fontana di Grimoaldo, dal nome del benefattore longobardo del XII secolo che ne promosse l'arricchimento estetico e la trasformazione funzionale.
Ahimè è ad una quota molto prossimale al Torrente Fenestrelle, tant'è che occasionalmente è stata danneggiata dalle inondazioni del corso d'acqua; la sua collocazione nel rione povero di Sant'Antonio Abate l'ha esposta anche ai crolli dei fabbricati vetusti che la circondavano.
Nel 1650, dopo le devastazioni della rivolta di Masaniello, la Fontana fu ristrutturata con la realizzazione anche di due lavatoi, cui affluivano le acque limpide del Fenestrelle, a servizio dei cittadini e per decoro della città.
Rischiai di perdere questa antica Fontana col terremoto del 1980, a causa del quale fu coperta dai calcinacci degli edifici prossimali crollati. Fortunatamente nel dicembre 2017 fu inaugurata la nuova Piazza di Via Fosso Santa Lucia, con la Fontana finalmente recuperata.
CONVITTO NAZIONALE
Nel triennio 1806-1808 Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore del celebre Napoleone, a capo del Regno di Napoli in sua rappresentanza, stabilì che ogni provincia dello Stato dovesse avere un “Collegio Reale“.
Fu così che, in qualità di capoluogo della Provincia del Principato Ultra, fui scelta come città dove costruire il grande istituto.
Il progetto, però, fu approvato solo nel 1823 e l'edificio fu inaugurato il 1° dicembre 1831.
E' un'opera edilizia a forma di “T”, realizzata su un terreno di proprietà del sacerdote don Antonio Gallo, acquistato per quattromila ducati. In origine la struttura presentava solo due piani.
Nel 1860 furono realizzati il terzo livello e l’orologio a campane. Oggi appare come un edificio molto bello e maestoso.
La facciata, esposta a mezzogiorno in fondo all'odierno Corso Vittorio Emanuele, ha il vestibolo a forma di un tempio greco per il suo colonnato interno di 12 colonne e la maestosa cupola, con l'antistante giardino di fiori che sbocciano nella bella stagione.
Le cattedre istituite al Convitto di Avellino nei primi anni furono davvero tante e tutte molto prestigiose. La prima fu quella di Diritto pubblico, con i Padri Scolopi. Nel 1861 il Convitto di Avellino fu sottratto ai padri Scolopi, che negli anni l’avevano fatta diventare un centro d’idee liberali e rivoluzionarie, e divenne Regio Liceo Ginnasio e Convitto Nazionale. L’istituzione.
Preso in consegna dal Ministero dell’Istruzione del neonato Regno d’Italia, il Convitto fu intitolato a Pietro Colletta.
Nel 1917, nel pieno della prima guerra mondiale, gli studenti del Convitto Nazionale decisero di installare un busto di Francesco De Sanctis nel giardino antistante, nel lato opposto dove troneggia una secolare magnolia, a memoria dei cento anni dalla nascita di uno dei politici irpini più importanti dei primi anni del Regno d’Italia, formatosi al Convitto nazionale, dove aveva spesso soggiornato da studente.
Nel 1921 furono installate due lapidi commemorative dei giovani ex allievi caduti in battaglia durante la Grande Guerra.
Tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso nel Palazzo furono lasciati in funzione solo le scuole elementari, medie e il ginnasio. Il liceo classico fu trasferito a nuova sede in Via Tuoro, dove attualmente ha sede con il nome di Liceo Classico Pietro Colletta.
Oggi la struttura è in funzione come semi convitto ed è sede di scuola primaria, secondaria di primo grado e anche di secondo, con il ricostituito Liceo Classico a cui, dal 1995 si è affiancato il Liceo Classico Europeo, che fonde il passato con l’importanza delle lingue, del diritto e della cultura internazionale.
Buona parte dell'intellighenzia irpina è passata per il Convitto nazionale. Oltre a Francesco De Sanctis, ricordo Enrico Cocchia, filologo classico, grande uomo di cultura, che lasciò i banchi del liceo-convitto con una media eccellente. Ricordo anche il trio Antonio Maccanico, Attilio Marinari e Antonio La Penna, compagni di classe, tutti brillanti negli studi, e anche Dante della Terza, Giovanni Barra, Dante Troisi, Nicola Mancino, uomini che hanno scritto pagine alte della mia provincia.
CARCERE BORBONICO
Nel 1806, quando Giuseppe Bonaparte divenne re del Regno di Napoli e il governo francese pose fine al feudalesimo, trasformando e riorganizzando il regno, il capoluogo di provincia di Principato Ultra fu spostato da Montefusco ad Avellino, dando l’avvio per la mia città a un periodo di sviluppo edilizio. Si avvertì anche l’esigenza di un carcere, dato che i tribunali per le udienze civili e penali furono trasferiti da me. Le celle presenti nelle stalle di Palazzo Caracciolo e nei terranei di Palazzo Testa e degli Uberrati erano squallide e malandate e contrastavano con la politica di Bonaparte sulla condizione dei prigionieri (decreto del 5 febbraio del 1808).
Tuttavia solo nel 1822 il Re Ferdinando I di Borbone permise la realizzazione di una nuova struttura penitenziaria, grazie a un progetto stilato da Giuliano De Fazio, che ebbe la meglio sul progetto alternativo dell'Ingegnere Luigi Oberty. Il progetto del De Fazio si rifaceva alle teorie dell'inglese Jeremy Bentham nel suo Panopticon. La struttura carceraria, infatti, si presenta con una pianta esagonale e cinque bracci distribuiti a raggiera su cinque vertici, destinati alla detenzione carceraria (costruiti progressivamente dal 1832 fino agli anni '40 del 1800), più la palazzina principale, sul restante vertice, sede degli uffici del direttore (terminato nel 1837). Un corpo centrale di forma circolare, chiamato tholos, veniva utilizzato come cappella e come punto di collegamento tra tutti i padiglioni, proprio nell'ottica applicativa panottica: dalla sua cima, infatti, si era in grado di sorvegliare tutta la struttura. Tra la tholos e l'esagono perimetrale vi è il cortile interno.
Il Carcere era originariamente separato dalla sede stradale da un muro (alto circa un metro e mezzo), e tra questo e le mura esterne del Carcere si trovava un profondo fossato pieno d'acqua con il ponte levatoio (posato in opera nel 1939). Ai sei angoli del carcere erano presenti delle torrette cilindriche. Di tutto ciò non c'è più traccia.
Sono stati conservati, invece altri cinque grandi edifici, interni alla struttura, che ha assolto attivamente la funzione di carcere fino al 1987.
Dal punto di vista patrimoniale, l'Amministrazione Provinciale di Avellino è proprietaria dei tre padiglioni a nord (ex bracci per la detenzione maschile) e degli spazi annessi; mentre gli altri due padiglioni, l'ex palazzina di comando, la tholos e il giardino sono di proprietà del Demanio dello Stato, che li ha assegnati al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Attualmente il padiglione, utilizzato nel passato come infermeria, è sede delle Soprintendenze BAP e BSAE di Salerno e Avellino; l'ex palazzina di comando è sede della Soprintendenza Archeologica di Sa-Av-Bn-Ce e il padiglione destinato alla detenzione femminile è sede degli uffici dell'Archivio di Stato di Avellino. La Soprintendenza Bap di Sa e Av ha in gestione la tholos, le sale espositive e le aree giardinate e ne cura la concessione.
La Provincia di Avellino, dal canto suo, ha realizzato il più importante polo museale provinciale.
All'interno della struttura vi sono anche un auditorium e una "Sala Rossa" per le conferenze.
Il visitatore non può non soffermarsi:
al PIANO TERRA:
alla sezione Risorgimento, con circa 328 reperti fra cimeli, dipinti, armi, uniformi, bandiere, croci medaglie che raccontano le tappe fondamentali del Risorgimento irpino e nazionale dal 1799 al 1861;
alle celle d'isolamento,
al deposito visitabile, che custodisce reperti archeologici provenienti da tutto il territorio irpino,
al cortile esterno con il lapidario, costituito da epigrafi sepolcrali e iscrizioni onorarie,
al PIANO PRIMO:
alla nuova sezione Irpinia, memoria ed evoluzione, con oggetti esposti, provenienti da diversi contesti di scavo, che si dialogano tra installazioni multimediali, consentendo di ripercorrere l'evoluzione storica culturale dell'Irpinia e del suo territorio
al PIANO SECONDO:
alla pinacoteca con il suo ricco patrimonio pittorico di opere tra l'Ottocento e il Novecento, che offre un ampio panorama delle grandi correnti che hanno caratterizzato il Mezzogiorno d’Italia,
alla sezione scientifica, che custodisce un centinaio di apparecchiature di laboratorio per la riproduzione di sperimentazioni fisiche, meccaniche, ottiche, elettriche e termiche.
PALAZZO DEL GOVERNO
All'angolo di Piazza della Libertà con l'inizio del Corso Vittorio Emanuele II non può non attirare l'attenzione del visitatore il Palazzo del Governo, sede attuale della Prefettura di Avellino.
Nato come Ospedale nel 1502, divenne nel 1585 Convento dei Padri Predicatori Domenicani, con l'annessa chiesa della Madonna del Rosario, poi abbattuta agli inizi del XX secolo e ricostruita a Corso Vittorio Emanuele II. Maria de Cardona, durante il XVI secolo dedicò all'edificio particolari attenzioni finanziarie e, dopo di lei, accadde lo stesso che le Principesse Caracciolo.
Quando nel 1806 il Capoluogo del Principato Ultra fu trasferito da Montefusco ad Avellino, nel 1809 si decise di chiudere il convento e di destinare l'edificio, nel frattempo restaurato dall'ingegnere Luigi Oberty, al rappresentante del Governo, che vi si insediò nel 1818.
Con l'unificazione d'Italia divenne Palazzo del Governo (Prefettura) e sede dell'Ammistrazione Provinciale. Nel 1877 fu fatto restaurare e con l'occasione nel 1878 l'edificio fu innalzato di un piano per ospitare un ampio salone con affreschi di Vincenzo Paliotti. L'appartamento del prefetto fu abbellito da dipinti di valenti artisti del tempo: Mancini, i due Volpe, Sagliano, Lenzi, Martelli, Caprile, Uva, ecc.
L'edificio ha anche ospitato la Biblioteca provinciale, al tempo non molto fornita, e intitolata a "Giulio Capone", giovane e dotto filologo, morto nel 1892, a soli 28 anni.
TEATRO CARLO GESUALDO
Dopo il terremoto del 23 novembre 1980, con i fondi destinati sia alla ricostruzione che allo sviluppo della città, l'Amministrazione comunale decise di fornire alla città di Avellino un teatro, che tanto mancava ai miei cittadini, dato che quello preesistente, ubicato nella odierna Piazza Libertà, fatto realizzare nel primo decennio dell'800 dall'intendente del Principato Ultra, Giacomo Mazas, fu demolito negli anni 30 del novecento.
Il nuovo edificio fu progettato dagli architetti Carlo Aymonino e Gianmichele Aurigemma e i lavori per la costruzione cominciarono nel 1992 e terminarono nove anni dopo, nel 2001. Nel 2002 avvenne l'inaugurazione e il teatro, come quello demolito settanta anni prima, fu intitolato a Carlo Gesualdo, madrigalista del tardo Cinquecento e principe di Venosa (1566-1613), vissuto in Irpinia, nel comune di Gesualdo.
Sorge in pieno centro storico, di fronte alle rovine del castello medievale. Può ospitare 1200 posti a sedere divisi tra platea, palchi e balconata ed è il secondo teatro del Sud Italia, per capienza, dopo il San Carlo. L’ingresso, che guarda al vicino conservatorio Domenico Cimarosa, importante centro di produzione culturale nella mia città, è decorato da un colonnato che funge da prospettiva scenica sulla piazza. La sua struttura moderna, esternamente a forma rettangolare, racchiude all'interno la sala a pianta a forma ovale, ove ai due lati sono presenti 12 palchi (6 per lato), e altri 5 palchi sono presenti nelle retrovie della sala. Il palcoscenico è grande, moderno e tra i più attrezzati d'Italia, con un impianto acustico invidiabile.
Il teatro è sede del corso di laurea triennale dell'Accademia Nazionale di Danza in Discipline Coreutiche tecnico-compositive - Scuola di Coreografia.
MUSEO IRPINO
Il cavaliere Giuseppe Zigarelli, nobile irpino, scrittore ed appassionato studioso di antichità, nel 1828 allestì presso il suo palazzo, nelle mie terre, un museo domestico, frutto della propria collezione di materiali archeologici rinvenuti nell’area irpina centro-orientale. La collezione si incrementò nel tempo, anche se carente di un inquadramento scientifico degli oggetti e dei contesti di provenienza.
Tali reperti divennero il punto di partenza del Museo provinciale irpino, nato il 28 ottobre 1934, con sede presso piazza Matteotti, per volere del prefetto Enrico Trotta, con la collaborazione dello storico Salvatore Pescatori allora direttore della biblioteca provinciale e ispettore onorario alle antichità. Grazie alle sollecitazioni del Prefetto Trotta, i vari Comuni della Provincia contribuirono al potenziamento della collezione.
Gli avvenimenti bellici e l’insufficienza degli spazi causarono la chiusura del Museo e lo sgombero dei materiali nel 1942.
Negli anni ’50 del secolo scorso la ricerca archeologica in Irpinia, grazie Giovanni Oscar Onorato, con il supporto dell'Amministrazione provinciale e in particolar modo dal presidente dell’epoca avv. Vincenzo Barra, consentì di portare alla luce parecchi reperti archeologici, in particolare con le campagne di scavo a Mirabella Eclano, a Madonna delle Grazie di Mirabella, a Valle d’Ansanto di Rocca San Felice. L'’inglese Trump, per conto della Soprintendenza, esplorava la stazione preistorica in località la Starza di Ariano Irpino. Fu così che nell'aprile del 1954, grazie alla Soprintendenza alle Antichità e all’Ente per il Turismo, fu inaugurata una mostra archeologica che espose un gruppo di reperti provenienti da Aeclanum, dalla Valle d’Ansanto, da Atripalda e dalla collezione Zigarelli.
Nel giugno del 1957 il museo venne ospitato provvisoriamente nei locali del palazzo della Prefettura in via Mazas, mentre la Provincia affidò all’architetto Francesco Fariello la realizzazione di un nuovo edificio, in stile razionalista, oggi denominato Palazzo della Cultura, in Corso Europa. Il trasferimento del materiale e l'allestimento museale presso la nuova struttura iniziò nella primavera del 1965 e la nuova sede fu inaugurata il 19 dicembre 1966. Nel 1970 vennero istituite anche la sezione d’arte moderna e quella risorgimentale.
Il Museo Irpino può considerarsi oggi depositario del principale patrimonio culturale dell’Ente Provincia ed espone le sue collezioni oltre che presso la sede storica del Palazzo della Cultura, anche nei recuperati ambienti del Complesso Monumentale del Carcere Borbonico.
Il Museo Irpino è costituito da 8 sezioni.
SEZIONE DEPOSITO VISITABILE
Il deposito visitabile del Museo Irpino, ubicato presso il Carcere Borbonico, custodisce in buona parte reperti archeologici dell'Irpinia, compresi quelli dello Zigarelli.
Vi è poi una raccolta di ceramiche realizzate dall’Istituto d’Arte di Avellino agli inizi del XX secolo, tra cui le ceramiche “all’etrusca” e “alla greca”.
Di notevole pregio è la collezione di armi, composta da circa 150 pezzi, compresi armamenti civili realizzati da maestri armieri campani, tra i quali i la Bruna, i Venditti e i D’Auria di Lancusi, attivi tra il Settecento e l’Ottocento. Vi sono anche armi militari realizzate presso la Fabbrica Reale di Napoli e armi di provenienza straniera, tra cui una serie di rivoltelle ad aghi di fabbricazione belga e francese. Si possono visionare anche armi bianche, come spade, sciabole e coltelli, di provenienza spagnola, francese, tedesca, ottomana o addirittura africana.
Completa l’esposizione all’interno del deposito la collezione Salomone, una raccolta di oggetti di varia natura, donati nel 1935 da Giuseppe Salomone, colonnello medico di Marina a riposo e provenienti da tutto il mondo (Cina, Giappone, Sud America e Medio Oriente). Tra ceramiche e cimeli vari, il visitatore si può imbattere anche nei Cuchimilchi, statuette antropomorfe prodotte dalla cultura precolombiana detta Chancay, sviluppatasi sulla costa centrale del Perù tra il 1200 e il 1450 d.C.
SEZIONE LAPIDARIO
Passeggiando in uno dei cortili esterni del Carcere Borbonico, in corrispondenza del primo padiglione maschile, si può visitare il lapidario del Museo Irpino, costituito da numerose epigrafi per la maggior parte sepolcrali, ma anche da iscrizioni onorarie a carattere sacro e pubblico. Vi sono anche frammenti architettonici appartenenti per la maggior parte ad opere pubbliche, firme, sigle, contrassegni e sarcofagi.
La provenienza è varia e interessa tutto il territorio irpino, così come la cronologia di tali reperti è ampia: si parte dal I secolo a.C. per arrivare all’Età medievale. Proprio a questa fase risale un’imponente stele funeraria, di oltre due metri di lunghezza, sulla quale è raffigurato in un bassorilievo un cavaliere armato con lo spadone e un grande scudo con il simbolo araldico dei de Sus: si tratta di Luigi de Sus, giunto in Italia al seguito di Carlo I d’Angiò nel 1282 per la conquista del Regno di Napoli, divenuto poi vicario e governatore generale della contea di Avellino, e considerato il capostipite della famiglia Bellabona. La lastra era probabilmente la pietra della sua tomba.
Una parte del materiale lapideo è collocato anche nel percorso espositivo della sezione archeologica del Museo Irpino presso il Palazzo della Cultura. Lì sono ubicate statue, epigrafi a carattere funerario e iscrizioni celebrative. Di particolare rilevanza è una lunga iscrizione con dedica al dio Silvano, il dio che nel culto pubblico si chiamava Fauno. Abitava nei boschi ed era protettore della natura e delle attività agricole. Scoperta nel territorio di Oppido di Lioni verso Caposele, la stele risale al I sec. d.C.
SEZIONE PINACOTECA
Al secondo piano del Complesso Monumentale del Carcere Borbonico il visitatore può passeggiare nella pinacoteca. Allestita dal dipartimento DATA dell’Università “La Sapienza” di Roma, la pinacoteca offre l'opportunità di un viaggio attraverso tableaux vivants che descrivono scene di vita reali, la vita di campagna, il duro lavoro nei campi, la vita tra le mura di casa, i paesaggi rurali e poetici. Sono per lo più rappresentazioni prodotte con colori ad olio e acrilici, realizzate secondo le grandi correnti del Mezzogiorno d’Italia tra il XIX e il XX secolo.
Un importante nucleo della pinacoteca è costituito dalla donazione che il pittore Achille Martelli lasciò in eredità nel 1903 alla Provincia di Avellino. Martelli, di origini calabresi, si trasferì in Irpinia, lavorando e insegnando fino alla morte. Praticò anche la pittura su ceramica (tecnica a fumo) fondando con Lenzi una scuola a Bagnoli Irpino. Fra le opere più belle c’è “Oroscopo amoroso”, dove i personaggi sono rappresentati genuinamente e senza convenzioni, come le due contadine.
Vi sono, poi, i quadri e le ceramiche di Achille Martelli e Michele Lenzi, di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, Francesco Mancini, Giovanni Battista, Eduardo Monteforte, Francesco Sagliano, Giuseppe Boschetto, Vincenzo Caprile, dei fratelli Volpe, Alfonso Grassi e Federico Maldarelli. Di quest'ultimo è esposto uno splendido dipinto, esempio della pittura cosiddetta neo-pompeiana, che ritrae una donna in costume antico, adagiata su di un letto, all’interno di una stanza dalle pareti color rosso pompeiano. E' un dipinto di genere storico, in cui si percepisce l’erudizione archeologica dell'artista, per aver ricostruito l’interno pompeiano, la sua attenzione a voler descrivere la figura della giovane donna, il gusto di riprodurla vestita di stoffe seriche.
Nel 2016 entra a far parte del patrimonio della Provincia di Avellino la donazione Iole e Alfonso Palladino, grazie all’opera meritoria del giudice Alfonso Palladino nel ricordo dell’amata moglie. Tra gli oggetti donati, oltre al consistente numero di testi letterari, si possono ammirare una tela del Quattrocento attribuibile alla scuola del Lotto, una tela del Settecento di scuola veneta e uno splendido paliotto siciliano del Seicento inglobato magistralmente in una libreria degli anni Settanta del Novecento.
SEZIONE ARCHEOLOGICA
Il visitatore che vuole accostarsi alla conoscenza della storia antica del territorio irpino ha l'opportunità di visionare in maniera concentrata i reperti archeologici conservati presso la sede del Museo Irpino al piano terra del Palazzo della Cultura.
Oltre ai reperti appartenenti alla collezione Zigarelli, la sezione offre una vasta e ricca documentazione archeologica sulle varie fasi di insediamento in Irpinia, dalla Preistoria alla Tarda età romana, con un allestimento che segue un criterio cronologico-geografico dei reperti in base all'epoca storica a cui risalgono e al sito archeologico in cui sono stati ritrovati.
I reperti più importanti sono senza dubbio quelli dedicati alla divinità italica Mefite, il cui santuario meta di pellegrinaggi e di offerte a partire dal VI secolo a.C., era localizzato nella Valle d’Ansanto nei pressi di Rocca San Felice. Il rinvenimento per eccellenza fatto nel luogo considerato dagli antichi “Porta d’ingresso agli Inferi” per le sue particolari caratteristiche geofisiche, è stato un ricco deposito votivo, costituito da oggetti d’ambra, d’oro, bronzo, statuette fittili e di legno, ceramiche, monete ed armi, per la maggior parte doni offerti alla dea. Il reperto più interessante e originale è il cosiddetto Xoanon, una statua di legno ben conservata, rinvenuta nel torrente adiacente al lago di gesso e metano che sorgeva ai piedi del santuario. E' la rappresentazione stilizzata di un corpo umano, allungato a forma di stele, con due linee incrociate incise all’altezza del petto, braccia accennate e un volto triangolare, su cui spiccano due occhi spalancati.
Un altro nucleo espositivo interessante è quello costituito dai reperti provenienti dalla necropoli preistorica di Madonna delle Grazie, nel territorio di Mirabella Eclano, dove sono state ritrovate sepolture ad inumazione, ad una o due celle scavate nel tufo, del III millennio a.C.. Tra esse spicca la cosiddetta “Tomba del Capo Tribù”. Accanto al defunto, in posizione rannicchiata, è stato rinvenuto lo scheletro di un cane. Un ricco deposito di vasi ad impasto, armi in selce, oggetti in metallo ed un bastone in pietra spezzato nettamente in due parti, identificato come il bastone di comando, simbolo del potere, completavano il corredo funerario.
Nell’atrio, lungo i corridoi e nelle ultime sale sono conservati reperti di Età romana, provenienti Aeclanum e Abellinum. Tra gli oggetti spiccano le numerose statue in marmo ritrovate ad Aeclanum, come quella del Niobide in fuga, che decoravano l’impianto termale realizzato intorno al II secolo d.C. , e il pavimento in mosaico policormo a stagioni, del III - IV secolo d.C. , ritrovato ad Abellinum, a decorazione di un grande vano di un edificio pubblico o di una domus nobiliare.
SEZIONE SCIENTIFICA
Nella sezione scientifica del Museo Irpino il visitatore può imbattersi in circa cento strumenti, quasi tutti ancora funzionanti, risalenti dalla seconda metà del 1800 alla prima metà del 1900 e provenienti dalle più antiche istituzioni scolastiche della città di Avellino: il Liceo Classico “Pietro Colletta”, l’Istituto Tecnico Agrario “Francesco De Sanctis” e il Liceo Statale (ex Istituto Magistrale) “Paolo Emilio Imbriani”.
La sezione deve la sua nascita a un lavoro di recupero e restauro iniziato nel 1993 da un gruppo di docenti dell’Istituto Imbriani, dove erano accantonate strumentazioni importanti. L'operazione fu condotta grazie al contributo di esperti del museo Galilei di Firenze e dell’Associazione Scienza Viva di Calitri.
Il percorso espositivo è allestito al secondo piano del Complesso Monumentale del Carcere Borbonico e comprende anche una collezione privata della ditta Nicola Vanni. Nell’area espositiva, inoltre, è allestito uno spazio laboratoriale per esperienze didattiche come workshop e tinkering. Tra gli oggetti esposti, di grande rilievo per la sua rarità è un tubo di Geissler a reticolo quadrato, costruito in Germania alla fine dell’800 e considerato l’antenato dei moderni tubi al neon. Altrettanto interessanti sono due macchine elettrostatiche di notevoli dimensioni, risalenti alla prima metà del XIX secolo, una pila a tazze, probabilmente del secondo quarto del XIX secolo e un proiettore a manovella, parte di un equipaggiamento completo prodotto nei primi anni del 1900 e distribuito in Europa tramite la Gran Bretagna.
SEZIONE IRPINIA MEMORIA ED EVOLUZIONE
La Sezione Irpinia Memoria ed Evoluzione è il centro e cuore pulsante dell’intero progetto museografico del Carcere Borbonico. E' una guida all’evoluzione storica e culturale della mia provincia, “terra di mezzo” tra il Mare Adriatico e il Mar Tirreno, tra vinti e vincitori, tra eroi e mercanti, tra guerrieri e agricoltori.
La Sezione è un viaggio multimediale attraverso le peculiarità che hanno segnato le vicende storiche dell'Irpinia, terra di transito, a cavallo di aree produttivamente privilegiate, quale la pianura campana da un lato e il tavoliere pugliese dall'altro.
Un pendaglio in bronzo di 3000 anni fa, prima rappresentazione antropomorfa rinvenuta in Irpinia, frammenti di ceramica preistorica incisa, statuette lignee dal ribollente lago della Mefite, un’ara circolare in marmo dal foro della città romana di Abellinum, una moneta d’oro bizantina ed altri oggetti, scandiscono le tappe più significative della storia dell’Irpinia e di come essa sia stata luogo di insediamenti e di presenza umana in epoche preistoriche, protostoriche e storiche. Sono oggetti provenienti da diversi contesti di scavo e dalla collezione Zigarelli e dialogano con le installazioni multimediali.
SEZIONE RISORGIMENTO
In occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, alla presenza del presidente del Senato, fu inaugurata nel 2011 presso il Complesso Monumentale Carcere Borbonico la sezione risorgimento, ripensata rispetto all’allestimento del 1970.
La sezione è ricca di cimeli, dipinti, armi, uniformi, bandiere, croci, medaglie, materiale documentario quali giornali, decreti, opuscoli, bilanci, programmi elettorali, lettere, manoscritti del periodo risorgimentale. Sono in tutto circa 330 reperti, provenienti dagli archivi Barra, Capozzi, Trevisani e Pironti, e raccontano le tappe fondamentali del Risorgimento irpino e nazionale dal 1799 al 1861, con l'avvento della Repubblica napoletana prima, il decennio francese poi, i moti rivoluzionari del 1820 e del 1848 e, infine, l’Unità d’Italia.
Fra i documenti esposti, evidenzio il Decreto di Giuseppe Napoleone del 1806 con cui si abolisce la feudalità nel Regno delle due Sicilie, l’Atto di accusa per gli implicati nelle rivolte del 1820 e la Costituzione del 1848 promulgata da Ferdinando II di Borbone.
Vi è anche una mappa topografica della città di Avellino che risale al 1870 circa, realizzata da Federico Amodeo, la prima ad essere disegnata con precisione e in grande scala. Vi si possono riconoscere con 42 voci in legenda quelle che erano le principali emergenze cittadine.
Altrettanto interessante è un tavolo di proprietà di Giovanni Nicotera. Sul ripiano in granito è rappresentato uno stemma costituito da stendardi che richiamano alcune delle campagne militari compiute tra il 1857 e il 1867 da Garibaldi e dai suoi volontari.
Prezioso è anche il nucleo tematico dedicato alle armi, con l’esposizione di armi da fuoco ed armi bianche, tra cui una sciabola del XIX secolo, appartenuta ad un ufficiale della Guardia d’Onore del Regno delle Due Sicilie, sulla cui lama è riportata la scritta “Viva Ferdinando II”.
Dal 2015 sono presenti alcuni abiti femminili, testimonianza della moda di fine ’800 in Irpinia, donati dalla professoressa Orsola Tarantino Fraternali.
SEZIONE PRESEPIALE
Al primo piano del Palazzo della Cultura oltre 400 presepi, di fattura moderna, alcuni dei quali copie di originali più antichi, creati da artisti di ogni parte del mondo, donati da un fine collezionista avellinese Andrea di Gisi, forniscono uno spaccato demo-etno-antropologico del presepe nel mondo. Vi sono natività improntate allo stile tradizionale, ma anche al primitivismo dei presepi africani, all'uso di materiali riciclati, fino al maestoso e imponente presepe del '700, donato dagli eredi del sacerdote Gennaro Penta di Fontanarosa. Consta di più di mille personaggi in legno e in abiti dell’epoca realizzati in seta di San Leucio. Di notevole interesse è la scenografia in cui sono collocati i personaggi, costruita da una nota bottega napoletana all’indomani dell’acquisizione dei soggetti presepiali da parte dell’Ente Provincia di Avellino.
Palazzo della Cultura: Avellino, Corso Europa 251Complesso Monumentale Carcere Borbonico: Avellino, Piazza Alfredo De Marsico
Ingresso Gratuito - Prenotazione obbligatoria per scolaresche e/o gruppi organizzati - Prenotazione obbligatoria anche per visite guidate, laboratori ed eventi.
Contatti: Tel. +39 0825 790 733 | 539 mail: info@museoirpino.it
VISITE DIDATTICHE PER GRUPPI E SCUOLE: Gratuite - Partecipanti: max 30 personeDurata: Sezione archeologica 1 ora; Sezione presepiale 20 minuti; Sezione risorgimento, compreso ex struttura carceraria 1 ora circa; Sezione pinacoteca, compreso ex struttura carceraria 1 ora circa; Sezione scientifica, compreso ex struttura carceraria 45 min circa; Sezione “Irpinia, memoria ed evoluzione” compreso ex struttura carceraria 1.30 ora circa; Sezione lapidario compreso ex struttura carceraria 30 minuti ora circaPrenotazione: obbligatoria
LABORATORIPer bambini dai 5 ai 12 anni - Partecipanti: Gruppi fino a massimo di 30 persone - Durata: 1 ora oltre la visita alla sezione sceltaPrenotazione: obbligatoria
ORARI DI APERTURAPalazzo della Cultura: dal martedì al sabato dalle ore 9.00 alle ore 13.00 (ultimo accesso ore 12.45) e dalle ore 16.00 alle ore 19.00 (ultimo accesso ore 18,45)Complesso Monumentale Carcere Borbonico: dal martedì al sabato dalle ore 9.00 alle ore 13.00 (ultimo accesso ore 12.30) e dalle ore 16.00 alle ore 19.00 (ultimo accesso ore 18,30)
L'amante dell'arte non può glissare sul MDAO, il Museo D'Arte Orga, fondato nel 1995, partendo da una quadreria privata in museo. Chiuso nel gennaio 2006 per un riallestimento suggerito dalla critica d'arte Graziella Lonardi, il Museo è stato riaperto al pubblico nel maggio 2012.
Il museo deve il suo concepimento allo storico dell’arte Basilio Orga, a cui oggi è dedicato.
Per meglio rispondere alla sua missione il Museo nel settembre 2012 ha aderito all’Associazione Cristiana dei Musei d’Arte, sodalizio museale statunitense di ispirazione evangelista.
Una caratteristica peculiare del MdAO è quella di cambiare periodicamente l’esposizione delle opere, con quelle che si vengono ad aggiungere alla collezione, creando così nuovi confronti e nuove corrispondenze.
Vi sono esposte opere originali comprendenti sculture, disegni, acquarelli, oli, tecniche miste, e multipli (calcografie, litografie e serigrafie).
Vi è la sezione del ventesimo secolo (novecento), di interesse locale e regionale, tra i cui autori si annoverano Giorgio de Chirico, Carlo Carrà, Renato Guttuso, Michele Cascella, Mario Ceroli, Gianni Dova, Felicita Frai, Giovan Francesco Gonzaga, Nani Tedeschi, Ernesto Treccani, Renzo Vespignani.
La sezione del ventunesimo secolo propone opere di Athos Faccincani, Paola Epifani (Rabarama), Paola Romano.
Nella sezione di interesse locale e regionale sono esposte opere di Giancarlo Angeloni, Giulio Labruna, Marino Marco Lombardi e Aldo Pironti.
Il Museo offre appositi itinerari didattici: “La pittura Metafisica”, “L'Ottocento napoletano” e "L'Ottocento in Irpinia" (Battista Giovanni, Buscaglione Giuseppe, Uva Mariano e Cesare, Volpe Angelo e Vincenzo). Propone anche attività di approfondimento con visione di documentari e di interventi video realizzati da famosi critici d'arte.
Per le persone diversabili c'è l'opportunità di fare visite guidate, previa richiesta specifica al sovrintendente. Queste visite guidate si realizzano grazie all'attività di volontariato gratuita di alcuni docenti di sostegno esperti d'arte.
ORARIO APERTURA: MAR.TEDI' - GIOVEDI' - VENERDI' DALLE 17.00 ALLE 19.30
INGRESSO: GRATUITO, PREVIA PRENOTAZIONE TRAMITE EMAIL A mdao@libero.it
Museo civico di Villa Amendola
Lungo la Via dei Due Principati nella seconda metà del settecento, un facoltoso possidente di Avellino, Don Domenico Pelosi, sagace amministratore del Comune di Avellino, entrò in possesso di una villa, il cui giardino arricchì con alberi e piante esotiche e pregiate, come sequoie, banani, oleandri, ippocastani, lecci, magnolie, frassini, pini e abeti, di cui era appassionato collezionista.
Nel 1807 la figlia di Don Domenico, Aurelia Pelosi, sposò il capitano francese Luigi Horto, di Ajaccio, conterraneo di Napoleone e Giuseppe Bonaparte, che si trasferì nella villa ospitandovi anche personaggi illustri dell'epoca, come il colonnello Léopold Sigisbert Hugo, padre dello scrittore Victor, il primo Intendente di Avellino Capoluogo di Provincia, Giacomo Mazas e il notaio e patriota Giacinto Greco. Era il periodo napoleonico: all’indomani dell’8 agosto 1806, quando Avellino fu elevata a capoluogo di provincia.
La famiglia Orto (italianizzazione di Horto) ebbe in figlio Gioacchino Napoleone Nicola Orto, uomo colto e raffinato e avvocato di professione, che ospitò nella villa di via Due Principati artisti ed intellettuali irpini del tempo, tra cui i pittori Achille Carrillo e Cesare Uva, il deputato Errico Capozzi e il letterato Raffaele Masi.
Dal matrimonio, celebrato nel 1830, tra Gioacchino Napoleone Nicola Orto e Michela Montuori, figlia di un ricco commerciante di Avellino, nacque Aurelia Adelaide Filomena, che, raggiunta la maggiore età, sposò nel 1852 il patriota Mattia Farina di Baronissi, più volte deputato e poi senatore del Regno d ‘Italia.
La villa fu abitata dalla famiglia Farina, che generò nel 1859 Gennaro. Questi, che non poteva avere figli, sposò Francesca Federici di Montoro Inferiore, già madre di tre figli e vedova del pittore Michele Amendola. Dei tre figli di Francesca Federici vi era Francesco, che ereditò la villa avellinese di via Due Principati e nella quale decise di trasferirsi definitivamente nel 1934 con sua moglie Maria Carolina Viola e i suoi figli.
Il Comm. Francesco Amendola, tra l’altro Sindaco di Avellino dal 1947 al 1952, ribattezzò la grande casa di Via Due Principati con il nome di “Villa Amendola” e vi ospitò i maggiori intellettuali irpini del tempo: gli storici Vincenzo Cannaviello, Francesco Scandone e Salvatore Pescatori, lo scrittore e giornalista Alfonso Carpentieri, il meridionalista Guido Dorso, il medico Gaetano Perugini e l’avvocato Alfonso Rubilli. Ospitò anche lo scrittore e commediografo Roberto Bracco e il grande filosofo Benedetto Croce.
Con la scomparsa del Comm. Francesco Amendola, avvenuta nel 1959, "Villa Amendola" iniziò il suo declino, che si accentuò con i colpi del terremoto del 23 novembre 1980.
Fu grazie all'Amministrazione comunale, guidata dal Sindaco Antonio Di Nunno, che nel 2003 il Comune acquistò la proprietà per Euro 1.807.599,14 e avviò una meritevole opera di restauro.
Il giardino è stato mantenuto intatto ed attualmente costituisce la parte più interessante del complesso monumentale.
La Villa è composta da due corpi di fabbrica e conserva un “torrino” originale.
Al Primo Piano è stato allestito un percorso espositivo di tipo narrativo – cronologico, nel quale hanno trovato permanente sistemazione cimeli che ricostruiscono e raccontano la storia della città di Avellino dai due secoli di governo feudale da parte della famiglia dei principi Caracciolo (1589 – 1806) sino al Sisma del 23 Novembre 1980.
L’intero percorso, suddiviso in cinque sezioni, inizia con la sala n. 1, d’ingresso del Museo, dedicata ai due secoli di governo feudale della città di Avellino da parte della famiglia dei Principi Caracciolo. In essa è stato collocato in esposizione una pregevole scultura in bronzo fuso a cera persa, risalente al 1668, rappresentante Carlo II d’Asburgo, opera di Cosimo Fanzago, maestro del Barocco napoletano, tra gli allievi migliori di Gian Lorenzo Bernini. Sono esposti anche i tre “rosoni” in bronzo e i tre “gigli”, sempre in bronzo. La statua, i rosoni e i gigli costituivano le decorazioni della guglia barocca del Carlo II d’Asburgo, sino al sisma del XXIII Novembre 1980 posta al centro della Piazza Giovanni Amendola. Nella sala n.1 è esposto anche il grande medaglione in bronzo fuso a cera persa, che ritrae l’architetto e scultore bergamasco Cosimo Fanzago, uno dei due autoritratti del Fanzago di cui si conosce l'esistenza. Completano l’esposizione della Sala n. 1 i quattro prospetti, realizzati con la tecnica della china su carta, della Torre dell’Orologio, anche essa rientrante tra le opere di pregio dell’Avellino barocca, la cui realizzazione è attribuita a Cosimo Fanzago, con la collaborazione di Giovan Battista Nauclerio.
Nella sala n. 2, sono collocati, un busto virile ed uno muliebre in pietra calcarea bianca e lo stemma della città di Avellino, un tempo occupanti le nicchie superiori della Fontana di Bellerofonte, in Corso Umberto I, e realizzati dall’architetto e scultore Cosimo Fanzago. Vi è anche una pregevole statua lignea a figura intera che rappresenta S. Francesco di Paola, opera databile tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, appartenuta alla famiglia dei Principi Caracciolo, e frutto dello scalpello di Giacomo Colombo (Este 1663 – Napoli 1731), padovano di nascita ma napoletano di adozione. All’interno di due vetrine –bacheche è esposta, inoltre, una raccolta di ceramiche e terrecotte risalenti al XVII secolo, e rinvenuti, dopo il Sisma del 23 Novembre 1980, nei camminamenti sotterranei di Corso Umberto I, utilizzati dai Principi Caracciolo nel 1656, in occasione della tremenda epidemia di peste, che decimò la popolazione di Avellino, quale “Lazzaretto” per i malati terminali, a cui era concesso quale unico conforto una brocca d’acqua e la luce di una lucerna. Infine è esposta la lapide in ardesia riferita all’elevazione, l’8 Agosto del 1806, della città di Avellino a Capoluogo di provincia. La lapide, voluta dal Governatore di Avellino, il Colonnello Giacomo Mazzas, era collocata su una delle tre porte di accesso alla città, e precisamente “Porta Puglia”.
La sala n. 3 ospita reperti e testimonianze riferite alla città di Avellino nel periodo unitario e post unitario nazionale. In particolare spiccano un ritratto coevo ad olio sui tela di Pasquale Stanislao Mancini, insigne studioso di letteratura italiana, più volte Ministro e Primo Intendente di Avellino dopo l’Unità d’Italia, e il programma originale, con la copertina illustrata dal pittore Achille Martelli, dei festeggiamenti tenutisi in città nel 1888 per l’avvento della corrente elettrica (che, grazie, all'interessamento proprio del deputato e Ministro Pasquale Stanislao Mancini, consentì l'illuminazione pubblica di Avellino tra le prime in Italia). Infine trovano collocazione due pregevoli gouache su cartone pressato del pittore avellinese Cesare Uva (Avellino 1824 – Napoli 1886).
La sala n. 4 è dedicata alla Quadreria Comunale, che conserva diversi quadri pittorici avellinesi e irpini del ‘900, tra cui Vincenzo Volpe, titolare della Cattedra di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, Giovanni Battista, Faustino De Fabrizio, Luigi Bellini, del quale lacune opere sono presenti anche presso la Casa Bianca a Washington, avendo trascorso l’artista irpino gran parte della sua vita in America, Alfonso Grassi, presente con sue opere nei Museo Vaticani a Roma e presso la Galleria degli Uffizi a Firenze, Mario Pascale, progettista nel 1940 del Cine – Teatro Partenio e, nel 1960, delle fontane di Piazza Libertà, decorate poi dal ceramista Mario Guarini. Completano l'esposizione della sala n. 4 suppellettili e mobili del XIX secolo, donati dalla famiglia Biondi (antica famiglia della borghesia locale), dalla prof.ssa Laura Giovannitti, piccola collezione di orologi da tasca (detti anche a cipolla).
Nella sala n. 5 attraverso una ricca esposizione iconografica e documentaria, sono presentati fatti e accadimenti della storia civile, culturale e politica nazionale, riferiti al ‘900, così come sono stati vissuti nella città di Avellino. La Sala è anche adibita a conferenze e convegni.
A piano terra vi è anche una sezione dedicata al Vino della Campania con una serie di eventi enologici che vengono promossi per favorire l’artigianato locale.
La struttura ospita, al suo interno, anche la Biblioteca Comunale "Nunzia Festa", sala di pubblica lettura, dotata di postazioni internet, che vanta un patrimonio di circa 5.000 titoli.
Infine ci sono le grotte, cavità sotterranee adibite alla conservazione delle derrate alimentari e usate come riparo – sia dalla famiglia Amendola che dalla popolazione avellinese – durante il violento bombardamento aereo che interessò la città di Avellino il 14 Settembre del 1943.
INGRESSO: GRATUITO
VISITELUN MAR MER GIO VEN: dalle 09:00 alle 13:00
SAB: dalle 08:00 alle 14:00
MAR GIO: dalle 15:00 alle 17:00
CHIUSURE: DOM
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NATUROFILO
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LA CATTEDRALE DELL'ASSUNTA E LA CRIPTA
E' l'opera più importante della città: il Duomo o Cattedrale dell'Assunta.
Nel 969 l'Imperatore germanico Ottone, da cui dipendeva il Principato di Benevento, per frenare la crescita del clero bizantino, chiese al Papa Giovanni XIII l'istituzione della Sede Vescovile di Avellino. Fu così che il 26 maggio dello stesso anno il Papa conferì a Landolfo I, Vescovo di Benevento, il titolo di Arcivescovo ed elevò ad Archidiocesi metropolita la mia sede. Avellino fu una delle dieci diocesi suffraganee (dipendenti), insieme a Quintodecimo (l'antica Aeclanum), Ariano (Irpino), Alife, Ascoli (Satriano), Bovino, Larino, Sant'Agata (dei Goti), Telese e Volturara (Apula). Tra le suffraganee, però, Avellino venne posta in posizione privilegiata, come dimostra la collocazione del Vescovo di Avellino accanto all'Arcivescovo di Benevento sulla porta bronzea del Duomo di Benevento.
Così la Chiesa Madre di Santa Maria, di modeste dimensioni e collocata nella parte più alta del nucleo originario longobardo, divenne la Chiesa del Vescovo. Nel 1132, sotto il Vescovo Roberto (1131-1144), la facciata venne abbellita con marmi. Nel 1145 si decise di restaurare/ricostruire la Cattedrale e durante i lavori, il 10 giugno 1166, mentre si recuperava presso Urbinianum (attuale frazione di Valle) una colonna da utilizzare nella ricostruzione, alla presenza del Vescovo Guglielmo, vennero ritrovati i resti dei Santi Martiri antiochei Modestino, Fiorentino e Flaviano. Tali resti furono immediatamente traslati nella stessa Cattedrale.
Il Vescovo Vitantonio Vicedomini (1580-1591) fece ricostruire il tetto e nel 1667 Cosimo Fanzago diresse i lavori che interessarono l'altare maggiore. Il Duomo ha subito tanti ulteriori interventi di restauro, a causa dei terremoti del 1683, 1694, 1702 e 1732.
Nel 1778 il Vescovo Martinez (1760-1782) fece realizzare la scalinata di accesso al Sagrato, oggi opportunamente protetto da un alto recinto, per prevenire atti vandalici.
La notte dell'Ascensione del 1799 le truppe repubblicane francesi saccheggiarono l'edificio, portando via i più preziosi reliquari.
Nel 1813 l'altare maggiore venne sostituito da quello barocco proveniente dal soppresso Eremo camaldolese dell'Incoronata, ubicato nei pressi di Summonte. Il Vescovo Giuseppe M. Maniscalco (1844-1854) fece realizzare gli archi nelle pareti delle navate laterali per sistemare meglio gli altari. Con il Vescovo Francesco Gallo (1855-1896) il Duomo subì un intervento di restauro che gli ha donato il risultato estetico neoclassico che oggi il visitatore può ammirare. Per la facciata furono impiegati marmi delle cave di Gesualdo donati dal Re Ferdinando II. Furono modificati anche gli interni, secondo i disegni dell'Architetto Vincenzo Variale. Fu rifatto anche il pavimento in marmo.
Il Vescovo Guido Luigi Bentivoglio (1939-1949) intraprese interventi volti a preservare l’edificio e soprattutto il seminario, colpiti dal bombardamento del settembre del 1943. Infine, il Vescovo Gioacchino Pedicini (1949-1967) promosse il completo restauro della Cattedrale. Un ulteriore intervento, iniziato nel 1976, venne effettuato su iniziativa del Vescovo Pasquale Venezia su progetto dell'Architetto Marcello Petrignani.
L'attuale edificio è il risultato dell'ultimo intervento di ristrutturazione, intervenuto dopo il terremoto del 23 novembre 1980, che ha restituito al culto la chiesa il 6 ottobre 1985.
Il visitatore che si appresta a visitare la Cattedrale si trova immediatamente innanzi a una chiesa dalla tipica facciata neoclassica, con doppio ordine di colonne in stile corinzio in marmo. La vecchia facciata era in muratura intonacata, priva del finestrone, che ora si può ammirare imponente.
Oggi vi si trovano tre portali, di cui quello centrale, nella lunetta, è impreziosito da un altorilievo che rappresenta l'Ultima Cena, opera riprodotta di un'antica scultura degli artisti napoletani Gennaro e Beniamino Cali, andata distrutta a seguito dei bombardamenti del settembre 1943.
Le tre porte di ingresso sono in bronzo cesellato, opera dello scultore avellinese Giovanni Sica. La porta centrale raffigura episodi della città di Avellino e dei suoi vescovi.
Le due nicchie accolgono a sinistra la statua del Patrono di Avellino, San Modestino, e a destra la statua del Patrono dell'Irpinia, San Guglielmo da Vercelli, fondatore del Santuario di Montevergine. Anche in questo caso si tratta di riproduzioni recenti di sculture andate distrutte con i bombardamenti del 1943.
Sul timpano è rappresentato un triangolo equilatero che circoscrive un cerchio raggiante, simbolo dell'occhio divino, ovvero della divina provvidenza, che tutto vede e tutto sa.
La scalinata antistante è in stile barocco, con parapetti e transenne in marmo. La cancellata metallica posta a protezione della struttura, di recente realizzazione, è giustificata dal perpetrarsi di atti vandalici cui la facciata era soggetta.
Fino al 1980, la piazza antistante si presentava diversamente: sul lato destro, infatti, vi era l'antico seminario, poi crollato a seguito del terremoto del 23 novembre 1980. Oggi sono visibili, invece, i resti archeologici di antichi edifici.
Il campanile è esterno alla struttura della Cattedrale e vi si accede solo per il tramite del cortile interno.
Venne realizzato per volere del Vescovo Gioacchino Martinez (1760-1782) e per la sua base furono impiegati materiali tratti da edifici e monumenti di età imperiale provenienti dalla necropoli della vicina Abellinum. Al visitatore non possono sfuggire i blocchi di pietra, lavorati variamente, per niente uniformi, impiegati per realizzare le fondazioni e la parte bassa del campanile.
In origine, il Campanile non raggiungeva l'altezza attuale, e solo nel XVIII secolo venne innalzato e munito della cupola a cipolla.
Appena il visitatore entra nel Duomo, gli suggerisco di alzare immediatamente gli occhi al cielo sulla navata centrale e ammirare la magnifica volta a cassettoni in legno dorato, con la figura della Madonna dell'Assunta, realizzata nel XVIII secolo dall'artista Angelo Michele Ricciardi tra il 1702 e il 1703.
Sull'arco della navata centrale si possono ammirare gli apostoli Pietro (a sinistra) e Paolo (a destra) che col braccio steso indicano la Croce inserita in un medaglione centrale, mentre tra gli archi e l'architrave sono raffigurati i profeti e altri personaggi biblici, opera di Achille lovine. Infine, accanto all'arco retrostante sono stati stuccati dall'artista calabrese Giuseppe Sorbilli due Angeli.
La cattedrale ha uno sviluppo architettonico a croce latina e, girando lo sguardo, puoi notare le tre nevate da cui è costituita.
Sulla lunetta della porta laterale a destra è raffigurata l'inaugurazione e benedizione solenne della rinnovata cattedrale il 1° agosto 1889 da parte del Vescovo Francesco Gallo (1855-1896).
Tenendo sempre la destra, accanto alla porta che poneva in comunicazione il Duomo con il Seminario si possono osservare due lapidi apposte sotto l'affresco rappresentante il Vescovo Giovan Paolo Torti Rogadei (1726-1742), che concorse a far concludere celermente i lavori di restauro il 17 luglio 1728, lavori resi inutili dal sopraggiunto tremendo terremoto del 29 novembre 1732.
Nelle cinque cupolette della navata laterale destra sono raffigurati alcuni episodi della vita della Madonna e di Gesù con sua Madre. Realizzati da Achille Iovine, vennero rovinati dall'umidità e rifatti in gran parte da Ovidio De Martino.
Proseguendo verso l'altare centrale si trova l'altare con l'immagine di San Gerardo Maiella, che visse in Irpinia, un successivo altare con un medaglione della Madonna del Carmine, originariamente ubicato presso il "Carminiello allo Stretto", abbattuto dopo la guerra. Vi è poi l'altare dell'Adorazione dei Magi, con il dipinto probabilmente più bello del Duomo, opera di Marco Pino da Siena, che lo realizzò presumibilmente tra il 1570 ed il 1580. Segue l’altare di Sant' Antonio da Padova, datato 1729. In passato, la statua del Santo si trovava in una cappella del demolito Convento di San Francesco (Piazza della Libertà). Infine, più avanti, si trova l'altare con la grande tela della Crocifissione di Achille lovine, che il Vescovo Gallo chiamò ad Avellino, per adornare un preziosissimo reliquiario a forma di croce che conteneva due ampolle di vetro sigillato, per custodire una delle Sacre Spine della Corona di Gesù ed un pezzetto della Croce, che Carlo I d'Angiò prelevò dalla Cappella Reale di Parigi. Tale astuccio d'argento, montato su di un piedistallo con due grandi Angeli, venne rubato unitamente ad altre argenterie la notte dell'8 novembre 1825, imponendo il rifacimento di una copia del piedistallo a spese della città.
Nell'abside della navata laterale di destra è stata ricavata la Cappella della Santissima Trinità, rappresentata con un bassorilievo in marmo. Si tratta di un lavoro risalente a non oltre la metà del XVII secolo, attribuito a Giovan Domenico D'Auria e Annibale Caccavello, sotto la direzione di Giovanni Miriliano (noto come Giovanni da Nola). Nella Cappella, sulla destra, si trova un busto di San Lorenzo e sotto una teca con reliquia. A sinistra, c'è una statua di Santa Lucia.
Dirigendosi verso il transetto, elevato di due scalini, si nota il un nuovo altare, semplice ed in marmo bianco, posizionato secondo quanto previsto dalla Riforma liturgica del Concilio Vaticano II, onde permettere al celebrante di rivolgersi verso i fedeli. Nella piccola urna sotto l'altare, si trovano delle reliquie dei Martiri avellinesi. Davanti all'altare sono collocati l'ambone ed il fonte battesimale, mentre ai suoi lati, si trovano dei sedili in pietra per i sacerdoti che concelebrano col Vescovo nelle feste più importanti. Sul lato sinistro, si trova il bel quadro della Sacra Famiglia e sul lato destro, quello del Martirio di San Lorenzo, opere dell’artista Achille Iovine. Sotto al cornicione, in quattro nicchie, si trovano le statue in stucco ed a grandezza naturale dei quattro Evangelisti, con a sinistra, Marco e Giovanni e sulla destra, Matteo e Luca. Tra gli archi ed il cornicione sono riprodotti, subito dopo l'ambone, San Gregorio Nazzareno, Sant'Ambrogio, Sant'Atanasio, San Girolamo, San Celestino I Papa, San Giovanni Crisostomo, San Basilio e Sant'Agostino. Sul braccio sinistro del transetto è possibile osservare i quadri di San Francesco Saverio (a sinistra), San Carlo Borromeo e la peste di Milano (a destra). Sul braccio destro del transetto si possono osservare (a sinistra) un quadro di Sant'Andrea Avellino, teatino, che mentre celebra la messa vede l'ostia trasformarsi nel Bambino Gesú vivo nelle braccia della Madonna, e (a destra) un quadro di San Modestino. II quadro al centro del soffitto ritrae San Gaetano da Thiene, fondatore dei Teatini (o Chierici Regolari) ai quali appartennero alcuni vescovi avellinesi. Le cinque tele sono opera di Angelo Michele Ricciardi.
Vista dell'altare con ambone e fonte battesimale
Dirigendosi verso l'abside centrale si può ammirare l'altare maggiore, intarsiato sapientemente, e il coro ligneo, risalente al XVI secolo, restaurato da Erminio Trillo di Bagnoli.
L'altare maggiore, preconciliare, domina l'intera abside. Proviene dal Santuario dell'Incoronata sito nei pressi di Summonte e fu realizzato nel 1577 per volere di Laura Brancaccio, moglie in seconde nozze di Antonio Carafa. Quando, nel 1809, i beni furono incamerati dallo Stato, i frati dovettero abbandonare la struttura, che andò in malora. Per questo, nel 1813, l'altare venne trasportato nella Cattedrale e rimpiazzò quello antico. Con il successivo prolungamento dell'abside, l'altare venne arretrato alla posizione attuale. La pregevole fattura sottolinea la bravura del suo progettista, l'Architetto bergamasco Cosimo Fanzago, a cui si devono tanti monumenti avellinesi del periodo dei feudatari Caracciolo.
Il coro, di autore ignoto, venne realizzato nella prima metà del XVI secolo, epoca durante la quale il Vescovo Ascanio Albertini (1549-1580) fece restaurare ed abbellire il Duomo. E' costituito da dodici pannelli recanti storie evangeliche scolpite in noce (a partire da sinistra): le Palme, l'Ultima cena, la Lavanda dei piedi, l'Orazione nel Getsemani, l'Arresto di Gesù, il Processo davanti al sommo sacerdote, la flagellazione di Gesù, la Condanna inflitta da Ponzio Pilato, il Viaggio con la Croce, la Crocifissione, la Deposizione nel Sepolcro, la Resurrezione.
Sotto la volta, nove medaglioni di stucco riproducono (da sinistra) San Silverio Papa, il Vescovo Francesco Scannagatta, San Modestino, San Roberto, San Sabino, il Vescovo Timoteo, San Guglielmo, il Vescovo Felice Leone e Sant'Ormisda Papa. Nelle vele, sotto i medaglioni, sono riprodotti a colori i simboli delle beatitudini (misericordia, fame, purezza di cuore, pianto, sofferenza, pacificità, povertà, mitezza), con in mezzo Cristo. Fu il Vescovo Francesco Gallo (1855-1896) a commissionare tutte le pitture figurative su intonaco, incluse quelle dell'abside, ad Achille lovine. All'uscita dell'abside si vede un quadro di Angelo Michele Ricciardi relativo alla cacciata degli Angeli ribelli dal Paradiso. Alzando lo sguardo sulla prima parte della volta dell'abside, si nota la rappresentazione di tre tappe della vita di San Modestino, all'atto della sua partenza in nave da Antiochia per raggiungere la Campania e quindi Avellino (in partenza la gente è triste e piange, all'arrivo la gente è festante), in punto di morte, nel suo letto, dove gli vengono dati i conforti religiosi alla presenza del clero in preghiera, mentre gli Angeli gli recano la palma del martirio e la corona del premio che gli verrà attribuita dal Signore, all'atto del ritrovamento del suo corpo presso il pagus Urbinatum, con la processione che accompagna i suoi resti, mentre il Vescovo attende all'ingresso della nuova Cattedrale, con i fedeli che si genuflettono come segno di devozione.
Uscendo dall'abside, di fronte alla navata di sinistra, si trova la Cappella del Santissimo, già detta Cappella di S. Modestino, ed ancora prima Cappella del Tesoro, visto che conteneva i resti dei Santi protettori della città, quasi tutti inclusi in busti di argento. Durante la Repubblica Partenopea, nel 1799, vennero prelevati quasi tutti, tranne San Modestino e San Lorenzo. Gli altri erano Fiorentino, Flaviano, Gennaro, Anna, Biagio, Carlo Borromeo, Filippo Neri, Gaetano da Thiene, Andrea Avellino, Apollonia, Francesco Saverio e San Giuseppe. Nella Cappella si trovano due piccoli quadri, la Predicazione di San Gaetano da Tiene, di Giuseppe Simonelli (a sinistra) e la nascita di Gesù, di Giacinto Diana (a destra). Sul pavimento, risalta lo stemma in marmo di Avellino, l'Agnello dell'Apocalisse sul Libro dei Sette Sigilli.
Proseguendo sulla navata sinistra, in alto si trovano altre cinque cupolette con episodi della vita della Madonna e di Gesù con sua Madre, realizzati sempre dallo Iovine e ripresi in parte dal De Martino, mentre sulla parete si può osservare dapprima un altare con una statua del Sacro Cuore di Gesù, che sostituisce il quadro di Sant'Alfonso Maria dei Liguori, che secondo la Tradizione qui avrebbe celebrato la messa. Segue, poi, l'altare della Madonna del Rosario, dove si trovano un quadro della Madonna con San Domenico e San Luigi Gonzaga, dell'artista Angelo Michele Ricciardi. Altro altare è quello dominato dalla bella statua in legno d'olivo della Madonna dell'Assunta, opera realizzata nel XVIII secolo da Nicola Fumo di Baronissi. Nel 1760 la statua con i marmi che adornano l'altare, ubicata presso il Convento di San Francesco in Piazza Libertà, venne trasferita presso il Duomo. Voltando le spalle si può notare un foro ricavato nel pilastro, protetto da un vetro, eseguito come "saggio" per evidenziare il rivestimento di pietra della colonna originaria. Seguono, infine, due Cappelle, di cui la seconda fungeva da Battistero: la cappella dell'Annunciazione e la cappella della Vergine dei sette dolori. Dopo l'ultimo restauro, il fonte battesimale venne spostato davanti all'altare maggiore, nel transetto.
Il Vescovato di Francesco Gallo (1855-1896) è ricordato dal busto sul parapetto della cantoria e dagli stemmi sulla porta d'ingresso e sull'arco dell'abside e la sepoltura nella Cattedrale.
Come la tradizione voleva, anche la Cattedrale di Avellino rispettava alcuni canoni, come quello dell’orientamento ad oriente della facciata e la realizzazione di una Cripta, ad un livello inferiore con l’altare della celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo, dove venivano collocati i resti di un martire.
Nel caso della Cattedrale di Avellino, il dislivello del suolo e l’innalzamento del piano di calpestio per ricavarvi i vani delle sepolture, permisero di ricavare ad un piano sottostante una piccola chiesa, residuo dell'originaria struttura, da cui nel XVII secolo, introducendo una serie di modifiche, venne ricavata la chiesetta romanica di Santa Maria dei Sette Dolori, con caratteristiche colonne di spoglio (ovvero provenienti dalla spoliazione di altri edifici), tutte diverse fra loro.
Il fatto che la Cripta dovesse resistere alle notevoli sollecitazioni determinate dal peso delle strutture superiori, fece utilizzate colonne monolitiche o in due pezzi, volte e blocchi tutti in pietra inseriti nei muri perimetrali di rilevante spessore.
Poiché le colonne di spoglio non presentano tutte la stessa altezza, vennero utilizzati pulvini (elementi architettonici sovrapposti ai capitelli, con funzioni strutturali) di diverso spessore e forma per ottenere un unico livello per la impostazione delle volte a crociera.
Gli stucchi sono opera di Angelo Michele Ricciardi, che dipinse alcune scene della vita di San Modestino.
Durante lavori di restauro, vennero alla luce capitelli romani, colonne longobarde ed affreschi tardo-settecenteschi.
Nel pavimento della Cripta vi è qualche vano più profondo, scavato nel tufo, per la sepoltura dei confratelli della Congrega dei Sette Dolori, che gestì la Cripta dal 1714, da cui prende il nome la strada dalla quale si accede al luogo sacro. Una lapide risalente a tale anno, ricorda che tali sepolture vennero realizzate grazie al contributo della Principessa di Avellino Antonia Spinola Colonna.
LA CHIESA DI SAN FRANCESCO D'ASSISI
La Chiesa di San Francesco d'Assisi a Borgo Ferrovia è nota ad Avellino per “Il Murale della Pace”, opera d’arte sacra molto importante, realizzata tra il maggio del 1964 e l’ottobre del 1965 dal pittore avellinese Ettore de Conciliis, all’epoca poco più che ventenne, con la collaborazione dell'altrettanto giovane artista di origini lucane, Rocco Falciano (Potenza 1933 – Roma 2012), su commissione del parroco del tempo della chiesa di San Francesco d’Assisi, Don Ferdinando Renzulli.
Il murale è stato affrescato sulla parete absidale della chiesa, coprendo una superficie di circa 130 mq (6,30 × 22 m), e utilizzando la tecnica della caseina calcica, che l'artista aveva studiato andando ad analizzare i dipinti della Camera degli Sposi di Mantegna a Mantova.
La tematica che l'autore ha voluto dare a questo murale è quella della guerra e pace, un omaggio anche alla grande letteratura russa. Quando de Conciliis iniziò l’opera era molto preoccupato del pericolo atomico. Ecco perchè il titolo originale dato dall'artista all’imponente composizione è “Pace, bomba atomica e coesistenza pacifica”. Tuttavia è stato sempre chiamato dai miei cittadini il “Murale della Pace”.
L’intento di de Conciliis e di Don Ferdinando Renzulli era di trattare i temi della pace nel mondo e del dialogo tra le forze laiche e cattoliche, anche in sintonia con le tematiche affrontate dal Concilio Vaticano II che si stava svolgendo proprio in quel periodo.
L’opera fu inaugurata il 23 ottobre 1965 e provocò un acceso dibattito che attirò l’interesse della stampa nazionale e internazionale. Fulcro della polemica era la convinzione, da parte di una frangia più conservatrice della Chiesa Cattolica, secondo la quale il giovane artista Ettore de Conciliis e il suo collaboratore Rocco Falciano avevano realizzato una rappresentazione iconografica inadatta ad un luogo sacro. Era la prima volta infatti, nella storia dell’arte, che in una chiesa si celebrava la pace dipingendo anche gli orrori della guerra; inoltre tra i partecipanti al corteo per la pace erano stati ritratti molti personaggi dell’epoca lontani dalla cristianità o addirittura atei.
L’opera, per il clamore che suscitò, fu sottoposta al giudizio della Commissione Pontificia di Arte Sacra, allora presieduta da Monsignor Giovanni Fallani, che alla fine si espresse positivamente, e finanche il papa Paolo VI interessatosi alla vicenda, volle incontrare, in udienza privata in Vaticano Ettore de Conciliis.
Il grande dipinto realizzato, con la tecnica ad affresco, è suddiviso in tre parti principali.
La parte sinistra è dedicata ala pace. Il centro compositivo ed espressivo è rappresentato dall’ l’immagine di San Francesco d’Assisi, a cui è dedicata la chiesa di Borgo Ferrovia, che rappresenta è l’emblema della pace e della fraternità. L’immagine del Santo è ispirata al ritratto eseguito da Cimabue nella Basilica di Assisi. La figura è stata realizzata applicando la “proporzione gerarchica medievale”, infatti, essendo il personaggio più importante, ha dimensione maggiore rispetto a quella delle altre figure. Il saio del santo è stato realizzato con la tecnica del collage, applicando sul dipinto frammenti di sacco colorati d’ocra. Attorno al santo si muove una folla ondeggiante di persone: in alto i contadini meridionali, a cavallo di muli, con la bandiera dell’occupazione delle terre incolte e, a seguire, tanta gente comune con bandiere e cartelli inneggianti alla pace; vi sono anche cartelli lasciati volutamente in bianco, affinché ognuno possa leggervi il proprio messaggio. Tra tutti i volti raffigurati è possibile riconoscere molti leader del mondo della politica e della cultura di quegli anni: persone di diverse nazionalità, età, gruppi sociali, e dalle più diverse opinioni politiche, anche alcuni atei, perché tutti gli uomini devono essere costruttori di pace. Secondo l’autore, infatti, “il processo di pace è legato alla comprensione reciproca, alla coesistenza pacifica, e dobbiamo contribuirvi tutti anche da posizioni ideologiche e religiose diverse”. Vi si riconosce:
Papa Giovanni XXIII, che ha sollecitato il dialogo tra la chiesa e il mondo,
J. F. Kennedy, che ha combattuto per i diritti civili delle minoranze,
Guido Dorso, politico irpino antifascista che aveva a cuore la crescita del Mezzogiorno,
Cesare Pavese, poeta che ha evidenziato la ricchezza dei valori del mondo contadino,
Rocco Scotellaro, il poeta contadino che ha lottato contro la povertà del meridione,
Eduardo De Filippo, drammaturgo che ha raccontato la vita della gente comune di Napoli,
Sophia Loren, che ha raccontato gli orrori della guerra con la sua interpretazione nel film “La Ciociara”,
Bertrand Russell, filosofo gallese che riteneva che la guerra fosse in antitesi alla civiltà,
Dolores Ibarruri, politica spagnola che ha combattuto contro il regime franchista,
Alberto Moravia, scrittore antifascista,
Francesco de Sanctis, scrittore e politico irpino che si è impegnato per lo sviluppo dell’Italia meridionale,
Palmiro Togliatti, politico antifascista che ha combattuto per la democrazia e la costituzione,
Pablo Picassoo, pittore spagnolo che ha denunciato la brutalità della guerra in Guernica,
Pierpaolo Pasolini, scrittore che ha rivalutato la cultura popolare,
Mao Tse-Tung, presidente cinese che attribuiva grande importanza al mondo contadino,
Fidel Castro, dittatore cubano a capo di un paese profondamente cattolico,
i vescovi di Avellino Gioacchino Pedicini e Pasquale Venezia,
Carlo Levi, scrittore di origine ebraica che ha raccontato i valori del mondo contadino
un autoritratto del pittore Ettore de Conciliis, autore dell’opera.
Nella parte centrale del Murale è rappresentato nella parte superiore il fungo della bomba atomica che si staglia davanti ad una città in rovina in cui si riconosce Roma, centro della cristianità. Più in basso, tra le macerie di una chiesa, si intravede un crocifisso, che è l’unico elemento rimasto intatto, a rappresentare la fede che può sconfiggere la morte. Una donna incinta accanto a due bambini simboleggia in maniera chiara ed inequivocabile la speranza di una vita che continua.
Nella parte di destra della vasta composizione pittorica è rappresentata, in maniera molto forte e in tutta la sua drammaticità, la guerra. In alto alcuni bombardieri sorvolano terribili scene di guerra disposte a formare un’unica immagine complessiva: resti di edifici distrutti, cadaveri umani nelle fosse comuni, patiboli con i condannati appesi, uomini angosciati dal presentimento di un’inevitabile rovina; tutte queste figure sono unite da un vero filo di ferro spinato applicato sul dipinto a mo’ di collage come per il San Francesco.
In questa parte dell’affresco è riconoscibile il pontefice della Seconda Guerra Mondiale, Papa Pio XII, che viene rappresentato da de Conciliis con le braccia spalancate davanti alle distruzioni subite dalla città di Roma, fulcro della cristianità, e circondato da un esercito di soldati armati di baionetta e volutamente non riconoscibili dall’elmetto, anche se un volto inquietante che emerge tra i soldati rimanda chiaramente al nazismo e sembra un monito a non dimenticare gli orrori perpetrati oltre che dai nazisti, dai fascisti durante la II Guerra Mondiale. Più in basso è rappresentata una scena della guerra in Vietnam, mentre a sinistra un gruppo di persone cerca riparo durante un bombardamento.
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