ALTAVILLA IRPINA

Scorcio del borgo

Il paese dello zolfo





La mia storia


"Il marito di Elena" è il titolo del romanzo drammatico che Giovanni Verga ambientò nel 1881 ad Altavilla Irpina. Tuttavia, più che per il tributo letterario, sono noto come il paese dello zolfo per la presenza di uno dei più importanti giacimenti della Campania, rinvenuto alla fine del XIX secolo.

Il piccolo borgo di Altavilla Irpina ha rappresentato originariamente il punto più alto del territorio occupato dai Caudini, una delle tante tribù del popolo Sannita. Per tale motivo, molto probabilmente, ho preso originariamente il nome di Altacauda.

Le prime evidenze storiche del mio centro abitato risalgono però all'epoca longobarda, durante la quale fu eretto il castello, denominato di Altacauda.

Nel 1134 Altacauda fu distrutta dal Re Normanno Ruggiero II de Hauteville e nel 1166 le terre di Altacauda furono donate al nobile Luigi De Capua, la cui famiglia era originaria di Hauteville in Normandia. Fu probabilmente per questo motivo che Luigi De Capua mi cambiò il nome con quello di Altavilla.

Intorno al 1400 ospitai Costanza di Chiaromonte, principessa di Modica (Sicilia) e sposa di Andrea II De Capua (Principe di Riccia e Triconte di Altavilla). In paese Costanza era per tutti la “Regina”, un titolo nobiliare che era stato suo in quanto già sposa di Re Ladislao D’Angiò, che l’aveva ripudiata.

Zezon lit. & De Luise dis.Costanza di Chiaromonte - 1838 

La successiva dominazione spagnola, protrattasi per circa due secoli, mi segnò molto negativamente. Durante il XVII secolo la povertà della popolazione era totale per il rigoroso sistema fiscale.

Bartolomeo VI fu l’ultimo feudatario e con lui si estinse, dopo sei secoli, la nobile e gloriosa famiglia De Capua. Con la sua morte, in assenza di eredi, Altavilla fu aggregata alla provincia di Principato Ultra.

Durante il Regno borbonico, nel 1836, ci fu una terribile epidemia di colera, che stroncò la vita di molta gente.

Il 7 settembre del 1860 Garibaldi entrava in Napoli e nel successivo mese di ottobre il Regno borbonico fu annesso al Regno d’Italia. Dalle Alpi alla Sicilia eravamo tutti italiani e sudditi di Vittorio Emanuele II di Savoia. Per distinguermi da altri quattro comuni del Regno che portavano lo stesso nome, nel 1862 aggiunsero al mio nome l'appellativo di “Irpina” e divenni per tutti Altavilla Irpina.

Nel 1866 l’ing. Primo Lattanzi scoprì l’esistenza dello zolfo nel mio sottosuolo e pochi anni dopo iniziò lo sfruttamento dei vasti giacimenti. Così divenni un vero e proprio paese industriale in un’Irpinia tutta contadina. 

Mi sviluppai urbanisticamente e la povertà dei miei abitanti ebbe finalmente fine. 

Vennero edificati lussuosi palazzi con grandi sale.

La miniera sorgeva, però, sulle rive del Fiume Sabato e i luoghi di cava, ubicati nelle viscere della terra a livelli sempre più profondi, diventavano inaccessibili quando il fiume straripava.

Dal 1875, in cui ci fu il primo allagamento, gli straripamenti vennero ricordati contrassegnando l’altezza raggiunta dall'acqua sul piazzale di cava con l'anno di riferimento.

Le inondazioni del Fiume Sabato e i terremoti non frenarono lo sviluppo del borgo. Il 29 Agosto 1880 una forte scossa di terremoto colpì l’Irpinia e la danneggiò gravemente. Altavilla Irpina ne uscì indenne e San Bernardino da Siena, protettore del paese, venne lodato e ringraziato nel ricordo delle sue parole: “Altavilla tremerà, ma non cadrà” (evenienza che si è ripetuta anche 100 anni più tardi in occasione del terremoto del 23 novembre del 1980).





Vieni a visitarmi


Non può esimersi dal visitarmi il patito dell'archeologia industriale, che può chiedere - al responsabile dello stabilimento - una visita guidata alle Miniere di zolfo.

Esse hanno rappresentato per oltre un secolo la principale fonte di reddito della popolazione di Altavilla Irpina. L’estrazione del minerale giallo è cessata nel 1983 e oggi una decina di addetti si limitano a svolgere la molitura e l'insaccamento dello zolfo sottoprodotto della raffinazione del petrolio.

Il vasto complesso industriale sorge sulle sponde del fiume Sabato e conserva gran parte delle strutture.

Nel 1863 Ferdinando Capone di Altavilla Irpina, proprietario dei terreni in località Bosco della Palata, presso un’ansa del fiume Sabato, venne a sapere che i contadini della zona, bruciando le sterpaglie, vedevano talvolta svilupparsi delle fiammate da cui si sprigionava un forte odore. Bastarono pochi colpi di badile per scoprire il primo filone solfifero e per cominciare, con i pochi contadini a disposizione, l’estrazione del terreno ricco di zolfo, molto richiesto come fertilizzante.

Tre anni dopo l’inizio dell’estrazione e della commercializzazione dello zolfo, la Direzione della Facoltà di Chimica Italiana ed il Consorzio Agrario di Avellino incaricano l’ing. Primo Lattanzi di compiere alcune ricerche nel territorio di Altavilla Irpina. Nel 1866 la notizia di giacimenti solfiferi in zona venne presto confermata.

Nel 1868 Ferdinando Capone, con alcuni soci, potenziò l’estrazione ed il commercio dello zolfo sia grezzo che molito. L’anno successivo fu costituita la Società Miniere Sulfuree di Altavilla Irpina, allo scopo di coordinare l’estrazione, la lavorazione e la vendita del minerale.

Grazie all’iniziativa imprenditoriale del giovane Federico Capone, succeduto al padre alla guida della miniera di famiglia, nel 1878 le miniere, sorte una dietro l’altra dal momento della scoperta del giacimento, si consorziarono e l’insieme delle cave e degli stabilimenti venne definito Miniera Sociale.

L’incremento dell’attività estrattiva avviò un processo di sviluppo complessivo dell’area, che coinvolse la viabilità stradale, l’edilizia ed i trasporti. Dal 1891 la ferrovia, fortemente voluta da Federico Capone, sostituì il trasporto fluviale su chiatte, che soffriva del problema dell’umidità, nociva per gli zolfi ventilati. Il treno era largamente usato dagli operai per raggiungere le miniere, ma soprattutto era usato per immettere sul mercato i sacchi di zolfo ed acquisire le materie prime come il carbone, necessario per le caldaie del crescente stabilimento industriale.

Nel 1906 lo zolfo di Altavilla Irpina ottenne il gran premio e la medaglia d’oro all’esposizione agricola di Salerno. Intanto una delle prime miniere, “La Vittoria”, si esaurì, ma presto una nuova ne venne aperta poco distante, poi denominata “F. Capone”.

Lo stabilimento di Altavilla Irpina si ampliò progressivamente, interessando l’area pertinente il Molino Pannone, sulla riva opposta del fiume. Il molino fu impiegato per la macinazione del minerale, per conto della Società Miniere Sulfuree di Altavilla Irpina, allo scopo di creare un anticrittogamico, ancora oggi assai richiesto nella viticoltura perché ottimo rimedio contro l’oidio e la peronospora.

Nel 1919 la Società Miniere Sulfuree e il Molino Pannone si fusero nella Società Anonima Industrie Meridionali (S.A.I.M.). Lo zolfo estratto in questo periodo copriva circa il 3% del fabbisogno mondiale e l’azienda iniziò un periodo di grande splendore.

Nel secondo dopoguerra però, a causa di una minore richiesta del prodotto dovuta alla scoperta di importanti giacimenti in Siberia ed in America Meridionale, nei quali l’estrazione veniva compiuta con tecniche molto più moderne e meno dispendiose, una crisi progressiva toccò la S.A.I.M., che fu costretta a licenziare i propri dipendenti, che si opposero con forti proteste sindacali. A ciò si aggiunse la catastrofica inondazione dell’ottobre del 1961 - evento non così raro in questo tratto del fiume Sabato -, che danneggiò notevolmente lo stabilimento, fortunatamente senza provocare perdite umane.

L’attività estrattiva si ridusse quindi drasticamente, fino alla definitiva chiusura delle miniere S.A.I.M. nel 1983, con Decreto Ministeriale. Da allora lo stabilimento prosegue la lavorazione dello zolfo proveniente dalle raffinerie di idrocarburi, continuando a realizzare prodotti di alta qualità.



Stabilimento83011 - Altavilla Irpina (Av)Contrada Formusi (c/o Stazione Ferroviaria)Tel. e fax:+39 0825.99.10.92+39 3391329498stabilimento@saimzolfi.it





MUSEO CIVICO E DELLA GENTE SENZA STORIA

Quando nell'ossario nella cripta della Chiesa dell'Assunta furono trovati abiti della quotidianità dei miei abitanti, conservati in ottimo stato, si pensò di restaurarli, conservarli ed esporli in un museo, che per i piccoli oggetti e per i costumi in esso contenuti, fu chiamato Museo Civico e della Gente senza Storia.

Il Museo, fondato dall'Amministrazione comunale nel 1997, è ospitato presso il Monastero Verginiano, complesso a pianta quadrilatera, con portico e chiostro. La costruzione fu voluta dal cardinale Orsini, poi Papa Benedetto XIII, che visitò più volte il fabbricato, come testimonia l'epigrafe all'ingresso. Soppresso nel 1807, fu adibito prima a caserma e gendarmeria reale, poi a tribunale, a complesso scolastico e infine - e fino ai giorni nostri - a Municipio. La Chiesa annessa al convento fu abbattuta nel 1892. Intorno al chiostro vi sono i locali destinati originariamente alla cucina, alla legnaia ed ai cellari. Sul portale di pietra di ingresso puoi notare l'antico stemma con iscrizione MV, indicante l'appartenenza del fabbricato alla casa religiosa di Monte Vergine. Sul lato destro dello stesso portale si legge la data 1691. 

Il portico del chiostro, al pian terreno, ospita lungo i suoi quattro lati il Museo, che si articola in tre sezioni, rispettivamente dedicate all'archeologia, al costume popolare ottocentesco e all’età medioevale.

Circumnavigando il chiostro puoi visitare la prima sezione contenente una serie di reperti archeologici, che confermano la presenza dei primi gruppi umani nel mio territorio fin dalla preistoria. Successivamente potrai vedere i preziosi tessuti della prima metà del XIX secolo, recuperati in occasione dello svuotamento del cimitero dei poveri, la cosiddetta “Terra Santa”. Tale cimitero fu utilizzato fra il 1700 e il 1840 ed era situato nei locali sottostanti l’attuale cripta della Chiesa Collegiata. L’ampio spazio espositivo continua con vetrine allestite in cui sono conservati un abito del primo quarto del secolo XIX appartenuto forse ad un contadino, un completo marrone (calzoni, camicia e giacchetta corta in cotone) che vestiva tra il 1830 e il 1840 un bambino di pochi anni, un tipico abito indossato da una contadina degli inizi dell’Ottocento. In una vetrina, in particolare, puoi osservare un’interessante divisa da lavoro in tela cotonata bianca e blu indossata dal soldato altavillese Giovanni Crescitelli, morto il 25 maggio 1815 nella battaglia di Tolentino e sepolto nel cimitero dei poveri altavillesi. Sono ben conservati anche un abito borghese in cotonina stampata di una bambina vissuta negli anni Trenta dell’Ottocento e l’abito di un artigiano, con calzoni tipo blu-jeans e camicia in tela di canapa dello stesso periodo. Oltre all'esposizione di abiti d'epoca, il visitatore può trovare reperti di età medievale e rinascimentale del Palazzo Comitale e della Chiesa dell’Annunziata.


Il Museo Civico è aperto al pubblico nei seguenti orari: martedì - venerdì ​dalle 9.00 alle 13.00; martedì - giovedì ​dalle 16.00 alle 18.00; sabato dalle 16.00 alle 20.00; domenica dalle 10.00 alle 13.00; lunedì chiusura. Su prenotazione, è possibile effettuare la visita anche in orari diversi da quelli fissati.Il costo del biglietto è di 2 euro per gli adulti, 1 euro per gli studentiIn caso di visite guidate animate o di particolari eventi in programma al Museo, il costo del biglietto potrà essere soggetto a variazioni.
Indirizzo: Piazza IV Novembre, 15, 83011 Altavilla Irpina AVTelefono: 0825 994566 - 991009



BORGO MEDIEVALE E PALAZZO COMITALE

Quando verrai a trovarmi, non potrai esimerti dal visitare le viuzze strette e tortuose, pavimentate con pietre, del mio piccolo Borgo. Sulle finestre e davanti alle porte fiori e piante, sapientemente collocate, emanano un profumo d’altri tempi. E mentre ti godrai il silenzio, rotto solo dai tuoi passi, ti sentirai trasportato nel mio passato. 

Tutto il Borgo Medioevale è area pedonale urbana.

Nel cuore del centro antico si eleva il Palazzo Comitale, grande edificio signorile d’epoca aragonese, che si ammira da tutto il versante settentrionale della media valle del Sabato. Il palazzo fu commissionato da Andrea de Capua nel corso del secolo XV, ad un anonimo architetto, in occasione del matrimonio con Costanza di Chiaromonte (ex regina e moglie ripudiata del re Ladislao D’Angiò Durazzo). 

L'edificio si sviluppa su due livelli e mostra elementi artistici e architettonici comuni ad altri edifici coevi campani, con presenza d’influenze catalane commiste ad espressioni stilistiche toscane. La splendida residenza nobiliare fu costruita sui resti di un precedente edificio fortificato, di cui sono ancora oggi evidenti, nel settore nord–ovest del fabbricato, alcune tracce nelle strutture murarie delle fondazioni. Punto nodale dell’intero edificio è il cortile interno, a cui puoi accedere da un lungo scalone che lo collega all’ingresso principale, riconoscibile dal portale architravato in pietra vesuviana finemente scolpito con motivi floreali e cornucopie. Anche le ornie di finestre e porte sono scolpite nello stesso materiale lapideo con motivi in stile toscano con caratteristiche tardo–quattrocentesche. Al centro di ogni architrave vi è la riproduzione di uno scudo, che riprende a rilievo i diversi titoli di casa de Capua. Dall’androne si passa nella corte interna attraverso un arcone lapideo depresso in stile catalano e a sinistra dell’ingresso si trova la Cappella di Santa Croce, realizzata nella metà del secolo XVII. Infine ai piedi del Palazzo vi è una lastra di pietra sulla quale anticamente il feudatario emanava leggi e sentenze. 

Abbandonato per un lungo periodo, il palazzo fu utilizzato prima come carcere mandamentale e solo dal 1813 è diventato, per volere regio, di proprietà comunale. Utilizzato come ospizio per i poveri fino al 1886, fu poi utilizzato come asilo d’infanzia, ma l’anno dopo venne adibito a lazzaretto durante l’epidemia colerica che colpì duramente la comunità del luogo. Nel 1894 uno dei saloni fu ristrutturato e adibito a salone teatrale, mentre durante il ventennio fascista i suoi ambienti ospitarono le aule della scuola elementare. 




MUSEO DI SANT'ALBERICO CRESCITELLI

Ecco il mio cittadino più illustre: Santo Alberico Crescitelli, che vi racconterà della sua vita virtuosa e pura.

"Nacqui il 30 giugno 1863 ad Altavilla Irpina, quarto di undici figli, da famiglia profondamente cristiana, come buona parte delle famiglie del paese, che era già noto per il culto del glorioso martire San Pellegrino, le cui reliquie, ritrovate nel cimitero di San Ciriaca a Roma, furono poi ricomposte e messe in un’urna e trasportate ad Altavilla nella chiesa maggiore, il 15 luglio 1780. Per il succedersi di miracoli attribuiti al santo martire, si instaurò un grande culto in paese. 

Da ragazzo mio padre mi incaricò di controllare i fondi agricoli di nostra proprietà. Questa attività giornaliera occupava molto del mio tempo, perché i fondi erano distanti fra loro. Se da un lato maturai una buona competenza in agricoltura e una disposizione alle scienze naturali, dall’altra non riuscii ad approfondire i miei studi elementari. Per sopperire a tale carenza mio padre mi mandò a scuola dal cappellano don Fischetti, che si dedicò ad istruirmi e a infondermi, con la sua guida spirituale, la vocazione sacerdotale. 

Così l’8 novembre 1880, a 17 anni e dopo matura riflessione, entrai nel Pontificio Seminario dei SS. Pietro e Paolo per le Missioni Estere (attuale Pontificio Istituto Missioni Estere) in Roma, dedicato essenzialmente a formare missionari e che dal 1883 aveva avuto affidata la parte meridionale dello Shensi in Cina. Trascorsi lì sette anni di studi in filosofia all’Archiginnasio Gregoriano e teologia alla Pontificia Università Lateranense ed a quella Gregoriana, conseguendo con soddisfazione i gradi accademici. Venni ordinato sacerdote il 4 giugno 1887, celebrando la Prima Messa nella Cappella dell’Istituto Missionario, assistito da mons. Gregorio Antonucci, neo-eletto Vicario Apostolico dello Shensi meridionale.

I miei superiori, ritenendomi preparato per l’apostolato missionario, disposero la mia partenza per l’autunno, concedendomi prima un periodo di riposo e di saluto ai miei parenti nel paese natio. 

Arrivato ad Altavilla Irpina il 10 luglio 1887, trascorsi un paio di mesi fra la mia gente, partecipando alle funzioni e alla festa della Madonna del Carmelo; ai primi di agosto mi recai per qualche giorno a Napoli, chiamato dal Visitatore Apostolico De Martinis, che mi propose di insegnare nel Collegio Cinese, fondato a Napoli dal servo di Dio sacerdote Matteo Ripa (1682-1746), ma rifiutai, benché l’impiego potesse essere di tutto comodo per me, non ritenendolo conforme alla mia vocazione. 

Dovendo partire l’8 settembre dal paese, cedetti al desiderio di mia madre di restare qualche altro giorno e così, quando il 12 settembre scoppiò ad Altavilla Irpina una terribile epidemia di colera, ero ancora lì e decisi di non andare più via, associandomi, con il permesso dei superiori, all’opera di assistenza di due altri sacerdoti, il mio maestro don Giovanni Fischetti e don Cosimo Lombardi.

Il Comune di Altavilla fu il paese più colpito dall’epidemia di colera, che dal 13 settembre al 20 ottobre 1887, contagiò 275 persone di cui ne morirono 103. I tre quarti della popolazione fuggirono verso le campagne e in paese, insieme a me, rimasero ben pochi per aiutare ed assistere gli ammalati, i moribondi e per dar sepoltura ai morti. Poco più di due anni dopo, il 23 novembre 1889, il Ministro degli Interni mi conferì la medaglia di bronzo, come benemerito della pubblica salute, ma io non c'ero a ritirarla.

Cessato il morbo, infatti, il 31 ottobre lasciai il paese, i familiari in lacrime e, accompagnato da mie due cugini, partii per Benevento e da lì proseguii da solo per Roma, dove trovai ormai assegnatami la meta della mia missione, cioè lo Shensi meridionale, ora diocesi di Hanchung. 

Trascorsi alcuni mesi nella preparazione alla partenza fino alle cerimonie della consegna missionaria del Crocifisso, l’udienza e la benedizione di papa Leone XIII. Infine, il 1° aprile 1888, insieme ad un altro missionario, padre Vincenzo Colli, ci accomiatammo dai confratelli e superiori, partendo il giorno dopo per Genova, dove trovai anche mio fratello Luigi, che ci accompagnò fino a Nizza; poi proseguimmo per Marsiglia e l’8 aprile, imbarcati sul piroscafo ‘Sindh’, partimmo per Shanghai, presso cui arrivammo il 14 maggio, dopo 36 giorni di navigazione e una sosta a Hong Kong, località in via di sviluppo, che la Cina nel 1841 aveva ceduto all'Inghilterra. 

Qui cominciò tutta una vita fatta di avventura, trasferimenti in territori accidentati, risalite di fiumi ed affluenti, adattamento al clima, adeguamento agli usi e costumi locali, come il radersi i capelli lasciando solo un ciuffo a mo’ di treccia. Migliorai notevolmente la mia capacità di parlare il linguaggio locale, che per quanto potesse essere insegnato in una scuola europea, non è mai la stessa cosa del capirlo e parlarlo con scioltezza. Dovetti sopportare tutti i riti pagani, cui ero costretto ad assistere, come quello di aspergere il sangue di un gallo sacrificato alle divinità dei fiumi, prima di attraversarli, per non parlare poi degli inchini continui, genuflessioni, bastoncini d’incenso e sfide alle rapide dei fiumi con il pericolo di infrangere la barca. 

Dopo 81 giorni di barca e 2000 km di fiumi attraversanti tante zone pagane, insieme a padre Colli arrivammo a Siaochai, antica comunità cristiana adagiata sulla riva destra del fiume Han, sorta per l’opera ed i prodigi del missionario gesuita, il servo di Dio Stefano Lefèvre (1597-1657), martire e sepolto in un villaggio vicino. 

Venimmo accolti dai nostri confratelli già presenti, coordinati dal Vescovo Vicario Apostolico mons. Antonucci e trascorremmo alcuni mesi ad Hachung, città dove i missionari avevano una residenza, per addestrarci nella lingua, così ostica per gli europei e in particolare per me. 

Intrapresi la mia attività missionaria visitando le comunità cristiane disseminate lungo il fiume Han, spingendomi ad Ovest verso Mienhsien e ad est fino a Han-yang-pin, dove edificai una chiesa. 

Pensai di avvalermi delle mie competenze in agricoltura, formando delle colonie agricole, con lo scopo anche di riunire i cristiani troppo dispersi nel territorio. Nel gennaio 1900 mi vennero affidati i distretti di Mienhsien, Lioyang e Ningkiang che era il più lontano e scomodo, ma in cui lavorai con particolare fervore, raccogliendo un gran numero di conversioni e togliendo gli idoli dovunque me lo permettevano di fare. 

La Cina, però, contrariamente all'ostinata siccità che la connota, fu ferita in quel periodo da piogge interminabili che distrussero i raccolti e il seminato, facendo aumentare spaventosamente i prezzi di quel poco che si aveva. 

Ci fu un razionamento dei viveri con sussidi, da cui furono esclusi i cristiani, a causa dell’ostilità che ormai serpeggiava fra i capi contrari alla religione e agli europei. Combattei in tutti i modi affinché i sussidi, concessi per fronteggiare la carestia, fossero estesi a tutti, riuscendo alla fine ad avere giustizia, ma con la contrarietà dei pagani, i quali erano convinti che la loro razione venisse così diminuita. Io, però, avevo bisogno tantissimo dei sussidi, per mantenere la gestione degli orfanotrofi con centinaia di bambini - specie orfanelle - da sfamare. 

Contemporaneamente si susseguivano le lotte di potere all'interno dello stesso palazzo imperiale di Pechino: da una parte l’imperatore Kwangsu con l'intento di avviare la Cina a diventare una potenza alla pari di quelle occidentali, e dall'altra 6000 Manciù con i loro interessi di casta, capeggiati dalla settantenne imperatrice madre Thehsi. Un fallito tentativo di eliminarla provocò un infinito mozzare di teste di tutti i consiglieri dell’imperatore ed il confino per lo stesso, che solo grazie alla mediazione dei Paesi Occidentali ebbe salva la vita, sottraendosi così alla sanguinaria e vecchia madre. 

In tutta la Cina, a seguito della politica antioccidentale, subita in maniera lampante e radicata nel territorio dai missionari e dalla Chiesa, iniziarono persecuzioni, eccidi, ferimenti, omicidi di missionari e fedeli cristiani cinesi, con distruzione di chiese ed edifici collegati, incoraggiati anche da un editto imperiale del 28 settembre 1899. 

Inoltre comparve sulla scena la società segreta dei ‘Boxers’ (pugni chiusi), presentata all’imperatrice come fedele alla dinastia e decisa a salvarla ad ogni costo dall'oppressione straniera. Essi erano comandati da Yuhsien, viceré dello Shantung, uomo rozzo, crudele e nemico degli stranieri. Quando uscì il decreto imperiale del luglio 1900 di espulsione o uccisione dei missionari stranieri, scatenarono una carneficina, cominciando con 29 fra suore, frati, sacerdoti missionari, vescovi, catechisti cinesi, uccisi orribilmente a colpi di arma da taglio nel cortile del tribunale dove erano stati radunati con l’inganno. 

Tutte queste vicende non mi distolsero dal mio attivo apostolato nel distretto di Ningkiang, fino a che non venni sollecitato a mettermi in salvo nella vicina provincia dello Sechwan, sia dai fedeli che dal Vicario. Altri missionari erano già stati rimpatriati; quindi mi avviai verso Yan-pin-kwan, imbattendomi in un edificio della dogana, dove si riscuotevano le tasse per l’attraversamento dei fiumi sui confini. 

Qui il doganiere di nome Jao, che mi aveva riconosciuto, con fare gentile e premuroso mi convinse a rimanere nel piccolo edificio, perché la strada non era sicura e certamente sarei stato assalito. Inizialmente accondiscesi, ma quella attenzione così premurosa nei miei riguardi mi fece temere di essere vittima di un tranello ordito nei miei confronti. Non avevo torto: verso le undici di notte, mentre pregavo in un angolo, una plebaglia accerchiò l’isolato edificio, il doganiere facendo finta di essere rammaricato, mi indicò come unica possibile via di fuga la porta sul retro, dalla quale uscii. La via di fuga davanti a me era ripida e aspra: mi sarei dovuto arrampicare su una vera e propria montagna. Non potendo riuscire nell'impresa fui presto raggiunto da un gruppo di malfattori. Chiesi loro perché volevano uccidermi, nonostante il bene che avevo fatto al popolo cinese, ma fui risposto con vari fendenti, uno sulla fronte la cui pelle staccatasi ricadde sui miei occhi, un altro mi staccò quasi un braccio e un altro mi ferì al naso e alle labbra; poi tutta insieme la plebaglia prese a percuotermi con bastoni e coltelli, lanciando grandi urla. 

Non contenti di avermi ridotto così sanguinante e quasi incosciente, mi presero come una bestia, attaccato con le mani ed i piedi ad una grossa canna e a spalle mi portarono su un banco del mercato, dove poi proseguì il mio tormento: mi bruciarono barba e baffi e continuavano ad oltraggiarmi perché considerato responsabile della riduzione dei sussidi alimentari. 

Un mandarino militare, venuto dalla città con pochi soldati fece allontanare quei pagani e io sperai nella salvezza, ma, mentre si allontanò per predisporre una barella, alcuni capi della plebaglia mi legarono le caviglie con una corda e mi trascinarono ormai morente verso un luogo vicino al fiume, dove, dopo alcuni tentativi di decapitarmi non riusciti, li vidi prendere un attrezzo agricolo dalla lunga lama, che in due iniziarono ad usare come fosse una sega."

Moriva in questo modo barbaro il 21 luglio 1900 a Yentsepien, il grande missionario del P.I.M.E. padre Alberico Crescitelli, dopo dodici anni spesi per il bene materiale e spirituale dei cinesi. Il suo corpo decapitato, fatto a pezzi, fu gettato nel vicino fiume. 

Questo autentico martire della Chiesa e del grande movimento missionario in Cina di quei tempi, venne beatificato da papa Pio XII il 18 febbraio 1951 e fu canonizzato, insieme ad altri 119 beati martiri in Cina e Vietnam (Tonchino), il 1° ottobre 2000 da papa Giovanni Paolo II in Piazza S. Pietro.

In suo onore è stato allestito, presso la casa natale del Santo altavillese, sita al C.so Garibaldi n. 10, un interessante museo che raccoglie numerose reliquie della vita di Alberico Crescitelli prima della sua partenza. Lungo il percorso museale viene illustrata la vita missionaria in Cina fino all’estremo sacrificio. In un armadio-reliquiario, predisposto dal fratello Luigi, sono stati custoditi da più di un secolo, alcuni effetti personali del Santo. Dal giorno in cui apprese la notizia dell'atroce martirio dell'adorato fratello, Luigi votò tutta la sua vita a raccogliere informazioni e cose del fratello, a cercare documentazione al fine di lasciare ai posteri quanto più possibile. Fu lui il primo biografo di "Don Alberico". Certamente sia il devoto che il visitatore occasionale, sostando nel museo potrà percepire il messaggio forte che questo grande testimone del Vangelo ci ha lasciato.


InformazioniSantuario dei SS. M. Pellegrino e Alberico Crescitelli, Via S. Pellegrino, 34 83011 - Altavilla IrpinaTel. Fax (+39) 0825.991043 (Parrocchia), 0825.991860 o 349.7194881 (responsabile).Il Museo è visitabile gratuitamente il martedì, giovedì, sabato e domenica dalle ore 10,00 alle ore 12,00 e dalle ore 16,30 alle 19,00.Per le scuole e per i gruppi le visite possono essere programmate in qualsiasi giorno della settimana, previa prenotazione
www.sanpellegrinom.it 




I miei eventi


Il palio dell'Anguria si svolge dal 16 al 18 agosto di ogni anno e rappresenta uno degli appuntamenti più suggestivi e divertenti dell'estate irpina.

La gara fa il verso ad una storica competizione tra cavalieri, ma in chiave moderna è stata rivisitata in modo da sostituire ai cavalli gli asini, cavalcati senza sella da improbabili fantini, costretti a tenere l'equilibrio sul dorso dei poco docili animali, portando in dono alla regina una pesante anguria.


I riferimenti storici del Palio di Altavilla sono legati alla “Regina triste”, come i miei abitanti chiamavano Costanza di Chiaromonte, figlia di Manfredi II, viceré di Sicilia e del ducato di Calabria. 

Era divenuta Regina di Napoli dopo il matrimonio con il re Ladislao D’Angiò Durazzo, in giovanissima età. 

Ladislao aveva dieci anni quando fu nominato Re di Napoli il 25 febbraio 1386. Il giovane Re e la madre Margherita, poiché non riuscivano a sconfiggere le fazioni di Luigi II D’Angiò, abbandonarono Castel dell’Ovo a Napoli e si rifugiarono a Gaeta, dove vissero tredici anni insieme a pochi Baroni fedeli tra cui Andrea de Capua, Principe di Riccia. 

Alcuni mercanti di Gaeta, che erano stati in Sicilia, riferirono alla Regina grandi cose di Manfredi di Chiaromonte e della bellezza di sua figlia Costanza. Margherita rimase vivamente impressionata e pensò di far sposare la giovinetta al figlio Ladislao, allora quattordicenne.

Dopo il matrimonio avvenuto a Gaeta il 5 settembre 1389, Margherita fece chiamare tutti i Baroni a lei solidali e con la ricca dote portata da Costanza fece decidere al Consiglio di dichiarare guerra ai D'Angiò. Tuttavia le sconfitte belliche riportate e i gravi lutti familiari a cui andò incontro la famiglia Chiaromonte in Sicilia portarono la Regina Margherita a convincere il giovane e ancora incline all'obbedienza Ladislao a ripudiare Costanza, che in così giovane età si trovò orfana, senza dote, tragicamente colpita dalla morte dei suoi fratelli ed infine ripudiata.

Costanza, bambina portata via dai genitori e dalla sua Sicilia per andare a Napoli, non fu che mera portatrice di una dote, e dopo di lei altre regine furono impalmate dal re Ladislao al solo scopo di acquisire ricchezze e sostenere le spese per combattere le guerre nell’Italia meridionale.

Costanza, come molte nobildonne dell'epoca, era solo un mezzo per lo spostamento di capitali.

Dopo il ripudio, Costanza fu relegata in una casetta a Gaeta, dove restò per tre anni, fino a che Ladislao non decise di darla in sposa al suo amico e fedele feudatario Andrea de Capua, Conte di Altavilla

Le nozze furono celebrate in pompa magna nel Duomo di Gaeta il 16 Dicembre 1392. Dopo un soggiorno ad Altavilla, Costanza ed Andrea si trasferirono nel 1397 al Castello di Riccia.

Un fastoso corteo storico precede la corsa e rievoca la venuta ad Altavilla della regina Costanza, che ogni anno viene interpretata da un personaggio noto del mondo della televisione o dello spettacolo. La corsa degli asini con l’omaggio dell’anguria alla regina è invece un richiamo storico all’arrivo dei vassalli a palazzo per ossequiare con i loro doni i Signori. Il corteo storico si compone di oltre duecento figuranti in curatissimi costumi d’epoca: è aperto dagli sbandieratori e chiuso dalla compagnia dei trombolieri, che assordano letteralmente gli spettatori con i fragorosi colpi dei loro schioppi.

Alla corsa partecipano asini e fantini provenienti non solo da Altavilla ma da vari paesi del circondario. Non manca l’asino di Riccia, paese col quale Altavilla è gemellata. La gara per la conquista del palio è preceduta da batterie eliminatorie, che servono a selezionare i concorrenti. Soltanto nell’ultima corsa i fantini con una mano tengono le briglie e con l’altra sostengono sotto il braccio un cospicuo cocomero, che il vincitore andrà a depositare ai piedi della regina Costanza per sancire la sua vittoria.




BATTENTI DI SAN PELLEGRINO

Se vi soffermate sull'immagine di San Pellegrino Martire, che si trova nella mia chiesa Collegiata, vi colpirà la postura con la quale è stato effigiato. Non è in posa solenne e ieratica, mentre impartisce una benedizione o mentre rivolge lo sguardo ispirato verso il cielo, né inginocchiato con le mani giunte e gli occhi elevati per invitare alla preghiera.  San Pellegrino Martire è rappresentato seduto e addormentato, a simboleggiare il senso di profonda umanità di questo santo, viandante anche lui come te, che vinto dalla stanchezza, si siede e si addormenta.

Il viso raffigurato è efebico, dai tratti delicati, con aspetto quasi femmineo, accentuato dai lunghissimi capelli scuri fluenti sulle spalle. Una corona di fiori ingentilisce la sua testa, ripiegata sulla mano destra: il gomito poggia sul bracciolo di un trono marmoreo, ove il santo è seduto con le gambe incrociate. Il Santo, i cui piedi sono calzati da sandali allacciati lungo le caviglie, indossa una ricchissima veste istoriata in oro, con le pieghe che si insinuano tra le ginocchia. Sulle spalle e lungo i fianchi scende un mantello rosso riccamente drappeggiato e bordato d'oro. La mano sinistra poggiata sulle gambe sostiene la palma del martirio.

Già, il martirio, quel cruento martirio che il giovane Pellegrino subì nel 192 sotto l'imperatore Commodo. Fu sottoposto a supplizi atroci: le sue membra furono stirate e disarticolate, brutalmente percosso con verghe e bruciato sui fianchi, fu infine flagellato a morte con fruste piombate. 

Il suo corpo martoriato fu sepolto in una grotta nei pressi della via Aurelia, a sei miglia da Roma. Le spoglie del Santo furono poi rinvenute da un presbitero agli inizi del dodicesimo secolo e traslate a San Lorenzo in Lucina, dove furono riportate alla luce nel 1605. Nel 1780 un frate "cercatore" altavillese, del convento di Monte Oliveto a Napoli, giunto a Roma con la volontà di ricercare reliquie di un martire insigne da onorare come patrono e protettore di Altavilla, ritrovò nel cimitero di S. Ciriaca le ossa di San Pellegrino, prelevò l'urna e con l'autorizzazione del papa la portò con sé ad Altavilla. 

Accolte dal tripudio dei miei cittadini, i sacri resti furono ricomposti e rivestiti con abiti sfarzosi di foggia romana. Per garantire maggiore stabilità alle spoglie, il Santo fu sistemato come seduto, con la testa sostenuta da una mano, e fu collocato nella Chiesa dell'Assunta, sull'altare della navata destra, dove ancora oggi è venerato. 

Il culto del nuovo patrono attirò pellegrini da tutta l'Irpinia e dal Sannio, al punto che si dovette ampliare la chiesa. La presenza nel tempio di moltissimi ex-voto testimonia un culto e una fede nelle virtù taumaturgiche del Santo, che lo scorrere del tempo non ha offuscato. Uno dei tanti miracoli del Santo fu la guarigione di una bimba disabile che riuscì a sollevarsi e a camminare in seguito alle implorazioni al Santo della giovane madre. Era il 25 agosto 1899 e tra i presenti vi era tale Francesco Forgione, piccoletto, accompagnato dal padre a venerare il Santo. Di li a poco quel bambino sarebbe passato alla storia con il nome di Padre Pio da Pietrelcina. 

Se vieni a trovarmi il 24 agosto, vigilia di San Pellegrino Martire, hai l'occasione di vivere un'esperienza davvero straordinaria ed emozionante, che si protrae da oltre un secolo. In apparenza tutto è assai simile alle grandi feste patronali di molte città del sud. Il lungo, ampio e vivacissimo corso del mio centro abitato è sovraffollato di gente, ravvivato da fitte luminarie e cinto sui lati da interminabili file di bancarelle. E mentre sei frastornato dalla folla, dagli odori di leccornie e noccioline pralinate, dalla musica diffusa dagli altoparlanti dei venditori, un improvviso suono stridulo di trombetta avverte i più attenti che il momento è giunto. Il lungo viale, da rambla festaiola si trasforma improvvisamente in un corridoio deserto. Sei costretto ad assieparti con la folla sui lati della strada guardando in su, verso l'inizio della via, da dove arrivano loro, uomini e donne, giovani e adulti, ragazzi e bambini, anche in tenera età. Dalle vicine Avella, Baiano, Manocalzati, Montefredane, Mugnano del Cardinale, Avellino (frazione Picarelli – Starze) e Roccarainola, sfilano per le strade del mio centro abitato oltre 1200 devoti, scalzi, battendo i piedi sotto il sole cocente per omaggiare con fiori e ceri il santo patrono Pellegrino Martire. Sono i Battenti di San Pellegrino Martire, meglio definiti fujenti per il loro marciare incessante sulla nuda terra, vestiti di bianco con la simbolica fascia rossa tramandata da padre in figlio.

Gli uomini indossano un ampio e leggero pantalone bianco e una canottiera, di quelle che un tempo portavano i braccianti; le donne una camicia bianca e una gonna rossa. Sono tutti scalzi, compresi i bambini. Portano legata ai fianchi o a tracolla una lunga fascia rossa e saltellano incessantemente sia mentre marciano sia mentre sostano, durante le pause del percorso. 

I gruppi arrivano fin dal primo mattino: si dispongono in fila sui due lati della strada e procedono a passo veloce lungo il corso, fino a raggiungere la chiesa dell'Assunta. In mezzo a loro solo i "trombettieri" che liberi da ogni disciplina corrono in continuazione avanti e indietro, cadenzando col suono il ritmo della corsa. 

I bambini sfilano tutti insieme, talvolta tenendosi per mano. I più piccoli e i neonati sono portati in braccio o sulle spalle da un genitore, generalmente il padre. E non deve essere facile correre scalzi, sotto il sole, coi figli in collo. La fatica si legge sui volti dei devoti: i corpi sono sudati, i piedi neri come pece, gli abiti sporchi, raffazzonati e con i bordi laceri. Come dovevano essere gli antichi pellegrini, dopo l'affanno e le insidie del viaggio; come i loro padri, di cui testimoniano e rinnovano la fede. 

Un suono prolungato, a metà percorso e in prossimità della chiesa, annuncia il rituale gesto devozionale dei Battenti, che in omaggio al Santo si prostrano bocconi sull'asfalto cocente, per interminabili secondi, nel silenzio assoluto, finché l'urlo stridulo della trombetta non li incita a riprendere la corsa. 

I gruppi si succedono, senza una particolare cadenza, per tutto il corso della mattinata. All'arrivo di un gruppo di Battenti, annunciati dal suono aspro della trombetta, il viale si apre per accoglierli e applaudirli, per poi richiudersi alle loro spalle, nella consueta confusione della festa. A vederli sembrano tutti uguali, ma ogni gruppo ha una sua particolarità: il modo di annodare o tenere la fascia, un fiore stretto in una mano, il particolare ritmo soffiato nella trombetta, una mano posata sul petto. Anche nel momento devozionale ogni gruppo segue un suo preciso rituale: i devoti si sdraiano completamente sulla strada, in file verticali o talvolta a spina di pesce; si inginocchiano piegando fino a terra la testa; restano fermi accentuando il saltellio. 

Per ultimi sfilano i padroni di casa: il gruppo Battenti di Altavilla. E' il gruppo più numeroso, quello che maggiormente accende l'entusiasmo della folla dei miei concittadini. Il suo percorso non si differenzia dagli altri, se non nella parte finale. La processione è infatti chiusa da un gruppo di battenti che portano a spalla su un semplice baldacchino l'effigie di San Pellegrino, una statua o talvolta un ragazzo abbigliato come il Santo, seduto su un trono e con la testa piegata sul braccio nella dolce posizione del dormiente.

Poi la folla richiude in maniera confusa il corso principale: si avvicina l'ora di pranzo, si tornerà nel pomeriggio e in serata, quando si accenderanno le luminarie e i cantanti e i fuochi d'artificio allieteranno le ore finali della giornata. Il giorno dopo sarà festa grande: la festa di San Pellegrino. 


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